Amazzonia: il tragico cambiamento da foresta pluviale a savana

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6,7 milioni di chilometri quadrati, un terzo dell’intero sistema mondiale di foreste pluviali, ospitante il 15% del totale delle specie conosciute e in grado di trattenere tra 140 e i 200 miliardi di tonnellate di carbonio. Questo è il “Polmone del Pianeta”, l’Amazzonia, il cui nome lo deve al fiume più lungo del mondo che l’attraversa, il Rio delle Amazzoni. La sua superficie appartiene per la maggior parte al Brasile (60%), comprendendo anche in misura minore Colombia, Ecuador, Perù, Bolivia, Venezuela, Suriname, Guyana e Guyana Francese. Negli ultimi due decenni, però, l’attività umana di conquista e distruzione di questo mondo, iniziata già negli anni ’60, si è fatta ancora più intensa: deforestazioni, sfruttamento territoriale eccessivo, incendi stanno traghettando l’Amazzonia ad un punto di non ritorno, alimentando ancora di più i già innumerevoli problemi sul cambiamento climatico. 

Non stiamo parlando, però, di un piccolo bosco vicino a casa o di pochi alberi tagliati dall’uomo. Queste attività stanno modificando il volto di un’immensa foresta che, ancora oggi, ospita circa una specie su dieci tra quelle conosciute, 40.000 piante, 2.200 pesci, 400 mammiferi e quasi 2,5 milioni di insetti. Oltre ai danni “animali”, però, c’è un ulteriore problema, di dimensioni molto più impattanti per tutti noi. Uno studio apparso su Nature Climate Change mostra un problema che per anni ha diviso molti climatologi del mondo: finora, la questione del tipping point (“punto critico”) della foresta pluviale amazzonica non aveva trovato una risposta definitiva, soprattutto per la difficile difficoltà di misurazione della resilienza dell’ecosistema. Grazie a nuovi studi, basato su misurazioni satellitari e dati reali, i ricercatori hanno misurato la cosiddetta “profondità ottica della vegetazione”, un indice che indica la quantità di materia organica generata dalle piante e animali, in correlazione diretta con la quantità di acqua stoccata. Questo complica studio e procedimento, seppur un gran successo, ha portato a risultati alquanto scoraggianti: il 76% delle celle dell’Amazzonia ha perso resilienza – la capacità di mantenere processi abituali, come ricrescita della vegetazione dopo la siccità – dall’inizio degli anni 2000, a causa di queste trasformazioni principalmente umane.

La resilienza si sta perdendo più velocemente nelle regioni con meno precipitazioni e nelle parti della foresta pluviale che sono più vicine all’attività umana”, si legge nello studio. Le foreste pluviali come quella amazzonica, sono altamente sensibili ai cambiamenti delle precipitazioni e alle variazioni del livello di umidità, risentendo delle piogge sempre più inferiori rispetto al passato. Stagioni secche e più lunghe stanno minando la capacità della foresta di riprendersi dalle successive siccità: le specie arboree che soccombono al caldo, vengono sostituite con specie molto più resistenti ad un ritmo nettamente più lento rispetto ai rapidi cambiamenti del clima regionale. Il circolo virtuoso “più piogge, meno incendi e nuove foreste” si è interrotto in buona parte della superficie totale del Polmone del Pianeta: la riduzione della resistenza porterà, se non fermata, a quel fenomeno noto come “rallentamento critico”, l’incapacità sempre maggiore di risollevarsi dall’aridità e da altre fonti di stress.

Questo rallentamento critico, sottolineano attentamente gli studiosi, potrebbe essere il segnale di avvertimento precoce di un imminente collasso. Tutt’altro che piano, si sta raggiungendo il punto di non ritorno, una previsione accurata impossibile da svolgere ma che molto probabilmente si avvicina ad una velocità sempre più alta. È un corso del tempo che non segue le logiche normali: più alimentiamo lo stress ambientale, più il tempo della fine si avvicina inesorabilmente. C’è la necessità di invertire le emissioni globali di gas serra, ridurre la pressione locale sulla foresta pluviale (principalmente del Brasile) e conservare gli habitat per contrastare gli effetti di un clima più secco. Continuando così, tuttavia, nel momento in cui sarà possibile prevedere con buona approssimazione la data del “tipping point”, sarà probabilmente già troppo tardi per invertire la rotta e potremmo essere l’ultima generazione “privilegiata” da ammirare l’ecosistema dell’Amazzonia. 

 

Arienti Stefano

Arienti Stefano

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