COP26: la Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico è stata un fallimento?

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Domenica 31 ottobre 2021, il Regno Unito, insieme al diretto supporto italiano, ha ospitato quella che molti hanno ritenuto essere la migliore – se non l’ultima – opportunità del mondo per reagire alle devastanti conseguenze dei cambiamenti climatici. Della durata di tredici giorni, la COP26 (“Conferenza delle Parti”) di Glasgow è stata la prima riunione dell’ONU, in quasi tre decenni, che ha visto coinvolti tutti i Paesi della Terra per i vertici globali sul clima: sono stati quasi 30.000 gli ospiti e delegati, allo scopo di concordare un piano d’azione coordinato per affrontare un problema che in trent’anni è passato dall’essere ritenuto una questione marginale a trasformarsi in  una priorità globale. 

 

Il primo formale grande passo avvenne nel 2015, quando si tenne la COP21 a Parigi: per la prima volta, tutti i Paesi partecipanti (di quantità nettamente minore rispetto alla recente Conferenza) accettarono di collaborare per limitare l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei due gradi, impegnandosi ad adattarsi agli impatti dei cambiamenti climatici e mobilitare fondi necessari per il raggiungimento di questi obiettivi. 

 

La COP 26 è  un momento di “aggiornamento” degli obiettivi e piani preposti sei anni fa, sottolineando il carattere straordinario e urgente della Conferenza, di fronte ai fallimenti e catastrofi susseguitesi dall’ Accordo di Parigi” del 2015. 

Secondo il sito ufficiale, sarebbero quattro i traguardi imposti dall’Assemblea. Azzerare le emissioni nette a livello globale entro il 2030, di fianco al raggiungimento di un sistema a zero emissioni entro la metà del secolo. Adattarsi per la salvaguardia delle comunità e degli habitat naturali. Mobilitare almeno cento miliardi di dollari l’anno in finanziamenti per il clima. Collaborazione maggiore tra governi, imprese e società civile. 

Sono quattro obiettivi molto “ampi”, di natura ambientale, economica e sociale, che lasciano copioso spazio all’azione del singolo Stato, regolato (parzialmente) da scopi secondari contenuti in ciascuna macro-tematica. 

 

Molte Nazioni, nel corso degli anni, si sono già ampiamente mobilitate per raggiungere questi obiettivi climatici, molte volte anche con discreto successo. 

Il Regno Unito si è proposto e ha dimostrato già svariate volte di poter essere uno dei “Paesi guida” di questo cambiamento obbligatorio, proponendo novità e rinnovamenti “green” all’interno del proprio territorio. Il 18 gennaio, Sadiq Aman Khan, sindaco di Londra dal 2016, ha affermato di voler addebitare ai conducenti nella capitale una tariffa giornaliera fino a £2 per “tutti i veicoli tranne i più puliti”, allo scopo di incoraggiare le persone verso mezzi di trasporto più “verdi”. Una città, quella londinese, colpita dall’aumento di eventi estremi, tra cui per esempio le improvvise inondazioni della scorsa estate che hanno costretto alla chiusura di ospedali, metropolitane e aziende. 

 

A pochi mesi dalla Conferenza, possiamo definire la COP 26 un successo? Se l’obiettivo principale delle Nazioni Unite, come più volte dichiarato, è quello di limitare l’aumento della temperatura entro 1,5°C, il grande simposio di novembre non è stato altro che un fallimento. Nel documento non vi è alcuna traccia di azioni e impegni concreti per raggiungere il successo: obiettivo che andrebbe realisticamente portato avanti attraverso un coinvolgimento diretto e indispensabile delle comunità, reti sociali, istituzioni di prossimità e cittadini. Solidi e pragmatici oneri, investimenti chiari, programmi credibili e bilanci coerenti: tutte necessità che non esistono nel documento finale. 

Dovremmo tagliare del 45% le emissioni entro il 2030, ma si rimanda irresponsabilmente al prossimo anno. L’India ha già “avvisato” che il proprio raggiungimento di “zero emissioni” avverrà solamente nel 2070, vent’anni in ritardo rispetto alla tabella di marcia di Glasgow. Il rapporto dell’UNEP denuncia invece come le emissioni, di questo passo, nel 2030 cresceranno del 13,7% piuttosto che diminuire. 

È questo un quadro non solo “climaticamente” preoccupante. La debole formalità internazionale, non affiancata da concretezza e pragmatismo, rende fragili le fondamenta di documenti che, nel vero senso della parola, sono il presente e il futuro di tutti noi.

 

Arienti Stefano

Arienti Stefano

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