Autoritarismo o Democrazia?

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Il mondo attuale vive in una gigantesca contraddizione. Da un lato, l’ascesa dell’autoritarismo, la crisi della governance occidentale e – più nel dettaglio – la presa di potere della Cina sono tutti fattori che dimostrano una superiorità del potere e del controllo autoritario-dittatoriale rispetto alla democrazia; sintomo di una crisi del modello democratico-occidentale, non più in grado di essere esibizione dello sviluppo economico. Dall’altro lato, però, paesi come la Corea del Sud o, ancora più emblematico, tutto il Sudamerica – pur vivendo la maggior parte sotto regimi autoritari – ristagna in una situazione di crisi finanziaria e instabilità economica, “a braccetto” con una costante richiesta della popolazione della forma democratica. Quindi, nel XXI secolo quale forma di potere assicura la crescita economica? Autoritarismo o Democrazia? Proviamo a rispondere a tale quesito con il supporto della celebre opera del 1992 di Francis Fukuyama “La fine della storia e l’ultimo uomo”.

 

Autoritarismo?

Perché scegliere l’autoritarismo? Lo stesso Fukuyama, probabilmente il più grande sostenitore della democrazia al termine della Guerra Fredda, ammise che “i regimi orientali al mercato, invece, hanno il meglio di tutti e due i mondi [democrazia e comunismo]: sono capaci di ottenere dalle loro popolazioni un grado relativamente alto di disciplina sociale, e nello stesso tempo lasciano una libertà sufficiente a incoraggiare l’innovazione e l’impiego delle tecnologie più avanzate”. La grande Unione Sovietica riuscì, immediatamente dopo il termine della Seconda guerra mondiale e fino agli anni Settanta, a raggiungere alti tassi di risparmio e di investimento, comprimendo però i consumi senza alcuna pietà ed “implodendo” alla fine degli anni Ottanta per una mancanza di competitività e un’apertura al mondo democratico. Oggi, invece, processo “simile” sta accadendo alle grandi democrazie, in particolare USA ed Europa: l’assenza di competitività e la dedizione al mondo sociale, non permette più ai “paladini della democrazia” di rimanere al passo con il nuovo mondo autoritario-capitalistico.

Prendiamo, ovviamente, il caso della Cina. In un precedente articolo, è stato analizzato quello che negli anni Ottanta venne definito “Socialismo con caratteristiche cinesi”: esso rappresentava – e rappresenta tutt’oggi – la perfetta unione tra autoritarismo e capitalismo, un compromesso perfetto tra il controllo della massa e un’asfissiante ricerca del potere e del denaro in tutto il mondo. Le grandi teorie di Deng Xiaoping (leader supremo della RPC dal 1978 al 1989) hanno permesso alla nazione asiatica di divenire il più grande stato del pianeta e punto di riferimento per il capitalismo internazionale.

Già nel passato, inoltre, l’ingresso alla democrazia di paesi comunisti portò ad una loro crisi interna economica. Sempre secondo Fukuyama, “il passaggio, nel 1967, della Corea del Sud alla democrazia portò a un’enorme proliferazione di scioperi e di richieste salariali che il nuovo regime democraticamente eletto dovette accogliere. Il risultato fu un notevole aumento del costo del lavoro e una diminuzione della competitività”. Il comunismo portò alla perdita di competitività; la democrazia pure. L’autoritarismo sembra quindi essere la soluzione migliore se lo scopo è raggiungere la piena potenza economica.

 

O democrazia?

Prendiamo, però, come soggetto d’analisi il Sudamerica, continente (insieme allo Stato indiano) con le maggiori potenzialità nel breve e lungo periodo. “Le credenze della sinistra e della destra”, scrive Fukuyama, “nella necessità di un esteso intervento statale nell’economia hanno finito così per convergere. Il risultato di questa convergenza è che molte economie dell’America Latina sono dominate da settori statali rigonfi e inefficienti che o cercano di dirigere l’attività economica direttamente o l’appesantiscono con farraginose regolamentazioni”. A tal proposito, nel recente articolo di giovedì, abbiamo visto come il Venezuela sia entrato in una gigantesca spirale di iper-inflazione proprio per una totale invasione statale (e corruzione) nell’economia del paese, dove le sfere alte del potere hanno controllato gli scambi commerciali di petrolio e gas. O riprendiamo anche le parole di Fukuyama, il quale espone cosa accadde in Perù decenni fa: “Nel suo libro ‘The Other Path’, Hernando de Soto documenta il tentativo fatto dal suo istituto di Lima di creare una fabbrica fittizia seguendo le disposizioni di legge stabilite dal governo peruviano. Per espletare le undici procedure richieste ci vollero 289 giorni, e il costo dell’intera operazione […] ammontò a 1231$, pari a trentadue volte il salario minimo di un mese. Secondo de Soto la farraginosa normativa che regola la creazione di nuove attività commerciali è il maggior ostacolo che gli imprenditori peruviani si trovano davanti […], e questo spiega il fiorire di un’enorme economia “informale”, cioè illegale o extralegale”. In questi paesi, la democrazia – affiancata ad un processo di liberalizzazione economica – porterebbe ad una crescita smisurata; bloccata, però, da un controllo autoritario operato dai detentori del potere.

 

Cosa scegliere?

Nel lungo periodo, è impossibile immaginare come sarà il futuro delle relazioni tra economia e politica. Lo stesso Fukuyama fallì. Egli infatti vide il termine della Guerra Fredda come la vittoria nel mondo della democrazia liberale e, come affermato nel titolo dell’opera, la “fine della storia” e l’iniziare dell’era a guida statunitense. Come ben sappiamo, però, fu completamente il contrario: la leadership americana è in caduta libera, come anche la democrazia liberale; terrorismo, guerre (pensiamo a quella attuale in Ucraina) e crollo della governance occidentale sono state spodestate da nuovi attori non-democratici e in grado di dar vita ad un binomio dittatura-capitalismo.

Nel breve periodo, quindi, la vittoria andrà ai nuovi grandi attori in via di sviluppo, dalla Cina all’India, dall’Africa al Sudamerica. Tutti territori in cui, attualmente, il potere controlla la libertà, e la crescita economica è sicuramente non determinata dal grado di libertà della persona. La possibilità di una rivoluzione, però, è già dietro l’angolo.

Arienti Stefano

Arienti Stefano

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