Benvenuta Türkiye

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La Turchia necessita di aria nuova, specialmente la classe politica al comando e il leader dello Stato Recep Tayyip Erdoğan, di fronte alla forte crisi economica e alle complicazioni legate a migranti e gas. Il primo passo per questo cambiamento avverrà a livello “fonetico”: la Turchia pretende il riconoscimento internazionale del nuovo nome del Paese, cambiandolo da “Turkey” a “Türkiye”. 

La modifica non ha solo lo scopo di distaccarsi dall’associazione dell’immagine del tacchino (“Turkey” in inglese significa “tacchino”), ma, prendendo le parole del presidente, ha anche lo scopo di “esprimere al meglio la cultura, la civiltà e i valori della nazione turca”. La campagna #SayTürkiye, annunciata a dicembre, pone l’obiettivo di arrivare a porre il nuovo nome nei passaporti, documenti di identità, siti web istituzionali e nei prodotti esportati all’estero. È la necessità di rafforzare il marchio e la reputazione della Turchia, sempre meno centrale nei rapporti internazionali e contraddittoria per gli ideali dell’élite governativa. 

Ankara ha l’obiettivo di registrare nei prossimi mesi il nuovo termine presso le Nazioni Unite, abbandonando il nome che per più di cento anni ha rappresentato lo Stato a livello internazionale, con lo scopo di rappresentare al meglio lo spirito patriottico e nazionalista della popolazione, cittadini che, però, sembrano non appoggiare le azioni del presidente Erdoğan. Di fronte ad una sempre minore affezione popolare, il governo ha l’obiettivo di rilanciare la propria immagine, prendere una nuova confidenza delle proprie possibilità e apparire al resto degli Stati come qualcosa di diverso. La trascrizione fonetica, però, non è abbastanza per coprire l’altra faccia della medaglia turca, un Paese economicamente instabile e in una delle crisi più forti degli ultimi decenni. 

Il cerchio magico attorno a Erdoğan continua a difendere il suo ambiguo operato, intransigenza che sta, per molti economi, facendo schiantare il Paese contro un muro di povertà e inflazione. La sua politica poco ortodossa sui tassi di interesse (che consiste nel tenere basso il costo del denaro) e la pretesa di spingere il consumo interno, ha portato ad una serie di effetti collaterali deleteri da mesi per l’economia statale: la lira turca, alla fine dell’anno, si è svalutata di oltre il 40% sul dollaro, il tutto in appena un anno, provocando una inflazione fuori controllo e enormi problemi per un Paese fortemente basato sull’importazione estera. Il settarismo di Erdoğan si schianta quotidianamente contro social e le agenzie di rating (enti che svolgono l’attività di valutare il “merito di credito” di Stati o agenzie emittenti di titoli), le quali declassano il Paese e minacciano la democrazia deviando gli ideali del popolo. 

Anche con l’Unione Europa i rapporti sono in costante deterioramento. La furbizia di Erdoğan – e l’incompetenza europea – ha permesso alla Turchia di ottenere grandi risorse finanziarie grazie ai flussi migratori. Il Paese oggi è uno degli Stati al mondo col più alto numero di rifugiati, oltre cinque milioni su una popolazione di ottanta. Il continuo flusso che vedeva migliaia di siriani, pakistani e afghani attraversare il territorio, ha portato “Türkiye” a monetizzare l’emergenza: quasi 7 miliardi di euro incassati dall’UE solo nel 2016, aumentati nei successivi cinque anni come nuova forma di ricatto per assumere peso internazionale. Questo quadro permette ad Erdoğan, nonostante la crisi finanziaria interna, di mantenere una posizione centrale nel sistema europeo; il gioco turco è evidente e facile da capire, ma difficile oramai da fermare: le frontiere si chiudono e i soldi entrano nello Stato per supportare i profughi, e quando l’Europa decide di imporre sanzioni economiche nelle operazioni militari in Siria o verso i curdi, Erdoğan spara tutte le sue cartucce: “Se provate a chiamare invasione le nostre operazioni spalancheremo i nostri confini e vi manderemo tre milioni e mezzo di rifugiati”, ha affermato nel 2019 il presidente, riversando poco dopo 130 mila persone nello Stato greco. 

Il problema principale della Turchia non è sicuramente il peso diplomatico internazionale, ma la crisi finanziaria interna, un’economia debole e la popolazione sempre più stanca dell’operato governativo, rischiano di traghettare la Nazione in una spirale di fame e povertà che neanche un “rilancio fonetico” è in grado di placare. 

Arienti Stefano

Arienti Stefano

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