I ribelli Houthi minacciano gli Emirati Arabi

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La splendida e ricca “petromonarchia” degli Emirati Arabi Uniti è dal 2015 attaccata violentemente dal gruppo dei ribelli degli Houthi, compagine terroristica situata nello Yemen, Stato asiatico che da sette anni affronta una sanguinosa guerra civile e una crisi alimentare senza precedenti (articolo: “Guerra in Yemen: la soluzione è il taglio dell’assistenza alimentare”). 

Milizia attualmente al controllo della capitale Sanaa, gli Houthi sono un gruppo di guerriglieri sciiti appartenenti alla corrente dello “zaydismo”, che prevede la legittimità di rimozione dell’imam (capo spirituale del mondo islamico) in caso di inadempienza o inefficacia nell’affrontare usurpatori o invasori. Per questa suo carattere eversivo, è dalla fondazione del partito – nel 1992 – malvisto dall’Islam. La morte del suo leader, Husayn al Houthi, ha dato il via nel 2004 alla guerriglia tra il movimento e il governo yemenita, spostandosi pochi anni dopo a scontri contro le Nazioni accusate di discriminare la popolazione sciita. 

La conquista della capitale Sanaa nel 2014 fu garantita dalla debolezza governativa: i miliziani approfittano dell’economia bloccata dello Yemen per conquistare nel giro di un anno tutta la città, allontanando gli esponenti del governo e iniziando a controllare il Paese. Gli inefficienti accordi internazionali risulteranno carta straccia e la tensione costringe gli Emirati Arabi ad entrare definitivamente nel conflitto. Le già tensioni con l’Iran – la quale andrà a finanziare economicamente il gruppo degli Houthi – alimenteranno l’uso della forza saudita negli attacchi contro i ribelli. Nonostante le ampie tecnologie a disposizione, la coalizione formata da EAU, Bahrain, Giordania, Qatar, Egitto e Sudan non riuscirà ad espugnare il controllo del territorio, saldamente consolidato dal gruppo terroristico. 

Da sette anni lo scontro prosegue, come anche la pretesa saudita di un maggior supporto internazionale. La forza degli Houthi si è evoluta, allo scopo di rendere i Paesi del Golfo più insicuri e andando a colpire quindi ciò che ha reso imponente questo territorio: il petrolio. Il 17 gennaio, un drone del gruppo ribelle ha fatto esplodere tre cisterne di petrolio ad Abu Dhabi, provocando tre vittime e alti danni economici, soprattutto per il seguente incendio in un cantiere nell’aeroporto internazionale cittadino. La risposta non è tardata ad arrivare: poche ore dopo aver rivendicato l’attacco, sostenuto dall’Iran, la coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita ha lanciato una serie di attacchi aerei sulla capitale Sanaa. Il ministro degli esteri, lo sceicco Abdullah bin Zayed, ha affermato la necessità di intervenire con forza nel placare questi continui attacchi, causa di morti, danni economici e paura tra l’opinione pubblica, stanca di vivere nel timore di nuovi attentati. 

Sempre più considerazione sta ottenendo la richiesta d’aiuto internazionale, portando diversi Paesi a considerare il supporto militare e tecnologico nello scontro contro la milizia. Di fronte al disimpegno americano negli ultimi anni (il quale ha recentemente affermato di voler stanziare i più potenti velivoli delle Forze Armate nel conflitto), la Francia ha inviato a inizio anno rinforzi militari sostanziosi nel Golfo, allo scopo di “fornire supporto militare, in particolare per proteggere lo spazio aereo da qualsiasi intrusione”, come dichiarato su Twitter da Florence Parly, ministro degli eserciti francese. Un impegno probabilmente non determinante, ma che mostra un avvicinamento sempre più interessante tra l’Occidente e gli Stati del Golfo, allo scopo di eliminare qualsiasi minaccia politico-religiosa per far fruttare ancora di più i guadagni provenienti dal mondo petrolifero.

Arienti Stefano

Arienti Stefano

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