La contraddittorietà della Cancel Culture

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La “Cancel Culture” (o “call-out-culture”) è la traduzione inglese di “cultura della cancellazione”: si intende quella forma moderna di ostracismo con cui si estromette qualcuno da cerchie sociali o professionali; colpisce chiunque, figure pubbliche, brand, prodotti di consumo e dell’entertainment a seguito di dichiarazioni o fatti considerati offensivi. In pratica, si smette di supportare il nome o l’organizzazione in questione, reo di aver detto o fatto qualcosa di altamente discutibile o inammissibile.

L’esclusione può avvenire secondo molteplici modi, talvolta anche assurdi: l’estromissione di una azienda da un certo gruppo o holding di cui fa parte, può avvenire banalmente da una affermazione contraddittoria sui social del CEO di quell’impresa; oppure, il film vincitore di otto premi Oscar, “Via col vento” è stato considerato da una parte della popolazione americana come razzista – soprattutto dopo i fatti di George Floyd del maggio 2020 – portando alla cancellazione dell’opera dal catalogo dell’emittente televisiva mondiale HBO. 

 

La cancel culture ha invaso negli ultimi anni anche il mondo politico, utilizzata da molti governi autocratici per eliminare progressivamente tutte le voci dissenzienti. È il caso della Cina, il cui nazionalismo è esponenzialmente aumentato, invadendo il mondo mediatico e “soffocando” tutti quegli individui che abbracciano valori liberali. Marchi occidentali, celebrità, aziende tecnologiche sono cadute tutte vittime di ferventi campagne nazionalistiche, dando origine ad un ambiente politico favorevole solamente al discorso patriottico del Partito Comunista Cinese. 

Ovviamente non possiamo sapere se queste campagne d’odio e di ostracismo sono dirette dalle stesse autorità, ma secondo Kecheng Fang, professore all’Università cinese di Hong Kong, il governo approva tacitamente e incoraggia persinol’epurazione di individui “deviati” dalla linea del Partito: “Non sorprende che l’Internet cinese sia diventato più nazionalista. Gli interessi politici e commerciali hanno continuato ad alimentare questi comportamenti”. 

 

Gli stessi Stati Uniti si rendono quotidianamente protagonisti di atti di “cancel culture”, talvolta molto ambigui. Nei quartieri latino-americani di New York e di tutta l’America, il “Columbus Day” è una delle festività più sentite, in ricordo della scoperta di Cristoforo Colombo. Dopo l’uccisione di George Floyd, centinaia di proteste dilagarono per tutta la Federazione, sviluppando in parallelo un revisionismo contro tutti i simboli storici: Cristoforo Colombo venne immediatamente accusato di essere razzista, maniaco, genocida e schiavista, colpevole della morte di tutte le popolazioni indigene; venne dichiarata la rimozione di tutte le statue rappresentanti il condottiero nello Stato.

 

Sempre negli USA, dopo l’assalto a Capitol Hill, l’ex presidente Donald Trump è stato “bannato” (escludere un utente dai social nel caso in cui abbia ripetutamente violato le regole del network) da Facebook e Twitter, colpevole di aver inneggiato l’invasione al Campidoglio: “So come vi sentite. Vi voglio bene, siete speciali”, così Trump parlava alla massa di persone rivoltatasi nelle strade per protestare contro la vittoria dell’attuale presidente Joe Biden. 

 

La Cancel Culture è uno dei più potenti mezzi di “risoluzione dei problemi”, simbolo di una sempre più forte balcanizzazione popolare e governativa. Regimi politici sfruttano questo strumento per eliminare dalla discussione politica “agenti indesiderati”; gruppi e folle inneggiano all’eliminazione di figure storiche di seicento anni fa perché considerate razziste; capolavori cinematografici o musicali vengono eliminati dalle piattaforme perché considerate segregazionisti o fanatici. 

La “cultura della cancellazione” non è altro, però, che la trasformazione di una funzionalità delle piattaforme social in una limitazione della libertà d’espressione, un’azione non plausibile all’interno di un contesto liberale come quello degli Stati Uniti e simbolo di un Asia sempre più attratta dalla democrazia. 

Arienti Stefano

Arienti Stefano

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