La guerra civile siriana è un conflitto che prosegue ininterrottamente dal 2011, causando quasi cinquecento mila vittime e milioni di profughi. Tutto ebbe inizio quando la popolazione manifestò contro il nuovo regime del presidente Bashar al-Assad, autore di forti repressioni e scontri armati contro la Nazione. Il tutto culminò negli ultimi mesi dello stesso anno, quando alcuni ufficiali disertori proclamarono la nascita dell’Esercito Siriano Libero, iniziando una vera e propria guerra civile.
Sono passati dieci anni dall’inizio del conflitto e la Siria è affondata in una delle peggiori crisi umanitarie ed economiche del XXI secolo. L’80% della popolazione vive ormai sotto la soglia della povertà, costringendo gran parte dei cittadini a sparpagliarsi il più lontano possibile da quei territori. La pandemia Covid-19 ha ulteriormente aggravato la condizione statale, non monitorata e compromessa per la mancanza di farmaci e strumenti medici: secondo gli ultimi dati della Johns Hopkins University, solo lo 0,93% della popolazione avrebbe completato il ciclo vaccinale e l’assenza di strutture di terapia intensiva portano a maggiori decessi.
Non solo la crisi umanitaria; di fianco a povertà e fame continuano incessanti bombardamenti, arresti arbitrari, torture nelle carceri e assedio di intere aree, provocando gravissime conseguenze per i civili più fragili. Si teme, quindi, uno scenario simile a quello che sta colpendo l’Afghanistan, con un occidente che ignora la situazione e il rischio di abbandono del territorio da parte delle truppe americane ed europee.
Anche chi riesce a fuggire vive in condizioni di estrema precarietà. Dall’inizio degli scontri sono stati 5,5 milioni i rifugiati in oltre 130 paesi del mondo, secondo l’UNHCR, l’Agenzia ONU per i profughi. Il 70% di questi vive in totale povertà, senza accesso a cibo, acqua e servizi basilari per la sopravvivenza. I soggetti più vulnerabili sono i minorenni: il 45% dei rifugiati ha meno di diciotto anni e 1,6 milioni di bambini ha meno di dieci anni; la gran maggioranza senza diritto all’istruzione.
È negli ultimi anni che la crisi migratoria siriana è divenuta terreno di gioco tra la Turchia e l’Unione Europea. Erdogan, nel 2020, permise a migliaia di profughi di passare il confine turco ed entrare in Grecia, stabilizzandosi ufficialmente nel territorio europeo. Seppur possa sembrare un atto di benevolenza del presidente, la richiesta turca di Erdogan – supportata dalla Russia – sembra assomigliare molto più ad un ricatto: “Il nostro obiettivo aprendo le porte non era quello di creare una crisi artificiale, di esercitare pressioni politiche o di servire i nostri interessi. La capacità della Turchia ha un limite”, così il capo di Stato turco giustifica le sue azioni e le alte pressioni portate all’UE.
Di fianco, però, anche le scuse e i biasimi dell’Europa suonano come ipocrite bugie: dall’inizio della crisi siriana, l’Unione non è stata in grado di dotarsi di una politica comune sulle migrazioni e ha sempre mantenuto poco interesse verso la crisi della Siria. Finora, l’ONU e i suoi partner hanno inviato solo il 27% dei finanziamenti necessari per il piano di risposta umanitaria del 2021, che prevede 4,2 miliardi di dollari.
Le immagini di uomini a volto coperto che seminano il panico tra i migranti nelle isole dell’Egeo e la guardia costiera greca che bastona i profughi, hanno portato i vertici dell’UE a raggiungere il Paese, senza però ottenere ancora alcun risultato concreto. Se gli accordi stretti con la Turchia nel 2016 avevano lo scopo di fornire all’Europa un po’ di tempo per pensare a delle soluzioni di lungo periodo, non possiamo sicuramente dire di averli sfruttati e le conseguenze drammatiche non attenderanno ad arrivare.