La situazione politica nei Balcani

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Sono passati più di vent’anni dalle ultime guerre nei Balcani, terminate con la guerra del Kosovo e nella Repubblica di Macedonia. Le guerre jugoslave sono state una serie di conflitti armati secessionisti che hanno coinvolto i territori costituenti la Repubblica Federale di Jugoslavia, causandone la successiva dissoluzione. L’imperante nazionalismo davanti alla sconfitta russa, le motivazioni economiche e soprattutto culturali completamente diverse da Stato a Stato hanno portato a sanguinose guerre e a più di cento mila morti in dieci anni. 

Da questi tragici eventi, i quattro principali Stati dei Balcani, Croazia, Kosovo, Serbia e Bosnia-Erzegovina hanno preso strade completamente differenti, alcune seguendo un nuovo processo democratico, altri alimentati ancora dal nazionalismo guerrigliero di due decenni fa. 

In Croazia da qualche mese sta soffiando un nuovo vento politico, soprattutto dopo le elezioni avviatesi a conclusione dell’era dei partiti tradizionali e l’ascesa di Tomislav Tomašević. Il quarantenne, che al ballottaggio ha ottenuto il 65% dei consensi, si è posto su un nuovo piano di ascolto politico, militante principalmente sui diritti femminili e sull’ecologia. È una chiara rottura dei vecchi schemi, un nazionalismo inclusivo proveniente da lotte sociali nelle strade, megafono alla mano. 

Simil situazione anche nel Kosovo, in cui le elezioni del febbraio 2021 hanno rivisto la vittoria del partito di sinistra guidato da Albin Kurti, molto amato dalla popolazione giovanile e convinto promotore di una nuova partecipazione politica e istituzionale, soprattutto per il mondo femminile. Il suo successo, attribuibile in parte al suo carisma, è stato alimentato dal forte indebolimento dei partiti oppositori e della vecchia élite governativa, responsabile dei passati crimini di guerra a danno sia di serbi che albanesi. 

Non tutti i Paesi dei Balcani hanno visto, però, una rivoluzione democratica e sociale all’interno del proprio territorio. Serbia e Bosnia-Erzegovina combattono ancora con un passato sanguinoso e guerrigliero, un fragile e instabile equilibrio che ogni anno rischia di portare a nuovi drammatici eventi. 

In Serbia, l’epidemia legata al Covid-19 è completamente fuori controllo, con le autorità politiche che costantemente mentono sul numero reale di contagiati. Lo stesso presidente Aleksandar Vučić, oltre ad ignorare la bomba epidemiologica che affligge Belgrado, ritarda la convocazione del nuovo Parlamento per evitare ennesime rivoluzioni nelle piazze delle città. Il fallimento delle proteste sono anche la dimostrazione dell’assenza di una figura politica pronta ad incanalare il malcontento cittadino, alimentando il rischio di riconsegnare la Serbia alle logiche nazionaliste degli anni Novanta, raziocini che traghettarono lo Stato nella crisi e nella guerra totale.

Anche la Bosnia, dal punto di vista di repressione sociale e avvicinamento ad un tragico passato, non è da meno. Di fronte ad una delle più gravi crisi politiche dagli accordi di pace di Dayton nel 1995, osservatori nazionali ed internazionali hanno denunciato il pericolo del ritorno alla guerra nel Paese (articolo: “Lo spettro della guerra in Bosnia ed Erzegovina”). Il problema della definizione degli elementi chiave per il funzionamento di una Nazione multinazionale è il principale motivo di scontro interno, caratterizzato dalla lotta tra bosniaci, serbi e cattolici croati; tutti sono spinti dalla voglia di trasferimento di sovranità dagli attori internazionali a quelli nazionali, senza la mancanza di volontà di raggiungere un nuovo compromesso tra le forze all’interno del Paese.

Arienti Stefano

Arienti Stefano

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