“Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico”. L’articolo 48 della Costituzione italiana, secondo comma, dichiara solennemente la necessità per ogni cittadino italiano di “recarsi alle urne” durante il periodo delle elezioni. Se da una parte i politici (italiani e non) generalmente tendono a non riferirsi spesso al fenomeno del “non-voto”, sono soprattutto i giornali a chiamarlo in causa frequentemente, evidenziando il problema sempre maggiore dell’astensionismo politico. Potremmo definire l’astensionismo come quella volontà di astenersi, non andare a votare, per ragioni d’indifferenza, ostentazione o protesta. Lo studio dei comportamenti elettorali ha da sempre dedicato al tema dell’astensione un’attenzione nettamente inferiore rispetto a quella riservata invece ai cosiddetti “voti validi”, banalmente perchè solo questi concorrono a definire il risultato di un’elezione. A partire dagli anni Novanta, però, il significativo irrobustirsi della forza numerica degli astenuti in quasi tutte le democrazie rappresentative occidentali ha contribuito ad accrescere l’attenzione sull’indagine del non voto.
Al di là dei risultati, il dato principale che emerse dai ballottaggi delle elezioni amministrative dello scorso anno è che, totalizzando il 54%, il “partito del non voto” è stato il più “scelto” dai cittadini italiani, aggiudicandosi più della metà della popolazione a favore. Escludiamo subito, a fronte di questo dato, cosa non è il fenomeno dell’astensionismo, o almeno, cosa non rappresenta nella nostra penisola. Secondo il sociologo statunitense Seymour Martin Lipset, la non partecipazione elettorale non è da interpretare negativamente, ma può intendersi come indicatore della stabilità della democrazia: meno sono i conflitti sociali nello Stato, meno incentivi si avranno al voto elettorale, proprio perché “contenti” della situazione politica. Ma i conflitti sociali – oserei dire in tutte le democrazie occidentali – ci sono, e anche tanti: il fatto che la gente non si rechi alle urne rappresenta tutto tranne che una positiva accettazione della situazione statale. È, anzi, la situazione opposta.
Anche nelle recentissime elezioni presidenziali francesi, addirittura prima dell’uscita dei risultati del primo ballottaggio, si temeva e si sottolineava l’alta possibilità di astensionismo politico. Il 10 aprile, 48,7 milioni di francesi sono stati chiamati alle urne, con la possibilità di votare fino alle 19 o 20, a seconda della città: il 26,2% degli elettori si è astenuto dal voto, una percentuale più alta rispetto al 2017, che attestava il non-voto al 22%. A fronte di ciò, possiamo escludere con certezza la tesi sopra analizzata di Lipset. L’astensionismo appare quindi, in tutte le democrazie rappresentative, come una generale “apatia politica”, una forte dimostrazione di disinteresse verso la politica in tutte le sue forme. Questo è sintomo di una marginalità sociale e politica degli individui, una conseguenza della non condivisione dei valori della democrazia rappresentativa e una ribellione di individui disillusi dalla classe politica. Ed è proprio per questo che l’astensionismo diviene non solo apatia, ma anche una vera e propria forma di protesta, una dimostrazione di sfiducia contro gli attori statali attraverso un comportamento consapevolmente assunto. Una protesta come antipolitica, un non riconoscimento nell’offerta elettorale o nella modalità di selezione dei rappresentanti o, infine, un sentimento di abbandono e mancanza di identificazione partitica.
Protesta o apatia che sia, il fenomeno dell’astensionismo politico è sempre più alto, sempre più determinante e preoccupante per la stabilità della democrazia. Un malfunzionamento del sistema democratico, un grave segno di deficit della rappresentanza. La polarizzazione del confronto politico e la formazione difensiva dei governi hanno contribuito gravemente a suscitare un sentimento di disaffezione verso tutto ciò che fa parte della democrazia. Non odiamo la democrazia, odiamo il modo in cui viene portata avanti e, soprattutto, da chi viene capeggiata. Di fronte a ciò, resta da capire quanto l’astensionismo politico rappresenti e configuri una vera e propria uscita del cittadino dalla partecipazione politica, fondamentale per prevedere le sorti di una sempre più fragile democrazia rappresentativa, sempre meno “demos” e sempre meno “rappresentativa” del popolo.