Le elezioni presidenziali americane, parte II: i sectional cleavages

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Questa seconda “puntata” della breve rubrica sul funzionamento delle elezioni presidenziali americane si concentra non su un aspetto “funzionale” come il primo episodio, ma su un tema molto complicato che attanaglia gli Stati Uniti più di qualsiasi altro Paese occidentale. La questione dei “cleavages” è un fenomeno che costantemente ritorna nell’ambito politico statunitense, un elemento oramai costitutivo della scelta partitica americana e delle divisioni etnico-territoriali all’interno della Federazione. Facciamo chiarezza: per “cleavage” si intende un termine geologico che identifica la centralità delle macro fratture territoriali del sistema americano, spaccature territoriali determinate da una molteplicità di elementi diversi. Nel 1967, il sociologo americano Seymour Lipset e il politologo norvegese Stein Rokkan elaborarono la cosiddetta “Teoria delle fratture all’origine dei partiti”, dimostrando come la scelta di un partito politico non è affatto casuale, ma determinata dal personale legame con specifici principi e idee. Il modello dei due autori determinava la presenza di quattro fratture societarie, responsabili del consolidamento del sistema partitico bipolare americano attuale. Non ci concentreremo sulle suddivisioni di Lipset e Rokkan, ma cercheremo di identificare gli (almeno) due “cleavages” che più di tutti spaccano la società statunitense e spingono il cittadino a legarsi o al Partito Democratico o a quello Repubblicano. 

Un problema tanto drammatico quanto già visto, che ha segnato e continua a segnare la storia degli Stati Uniti. La violenza spropositata delle forze dell’ordine nelle metropoli americane, vittime inermi sdraiate a terra con un ginocchio spinto sul collo, disordini, proteste e violenze estese in tutta America. Il cleavage razziale è sicuramente una (se non la più determinante) frattura societaria che caratterizza gli USA, un elemento centrale e presente in ogni Stato della Federazione. Fin dalla guerra di secessione americana, nel 1861, il tema razziale – compreso e strutturato in quello della schiavitù – fu uno dei principali motivi di scontro tra il Nord (di Abraham Lincoln) e il Sud (aristocratico e schiavista). Anche oggi, non ovviamente come centosessant’anni fa, la questione razziale è un grande tema di divisione territoriale, di legame di un certo Stato ad uno o all’altro partito. Prendiamo, per esempio, la cosiddetta “Election Integrity Act 2021”, attuata il 26 marzo 2021 nello Stato della Georgia. Presentata dal governatore repubblicano Brian Kemp come lo strumento per recuperare la fiducia degli elettori del territorio, le previsioni mostrano tuttavia l’intento di addivenire ad una limitazione sostanziale del diritto di voto, a danno in particolare della comunità afroamericana. Come affermato dai democratici e, principalmente, dimostrato da un’indagine del Brennan Center, le criticità della nuova legge (in cui fallimentare è stato ogni tentativo di interruzione dell’iter legislativo) sono risultate in primo luogo sulle modalità di esercizio del voto per posta: mentre fino ad ora era sufficiente una firma, i nuovi requisiti di identificazione per gli elettori prevedono il fornire una copia del documento di identificazione (patente o passaporto) della Georgia. Secondo gli oppositori, l’accesso al voto diverrà molto più difficile per le minoranze etniche e i soggetti a basso reddito che, in molti casi, non dispongono di alcun tipo di documento identificativo. Il razzismo è in calo negli Stati Uniti? Questo tema smetterà prima o poi di essere ancora così centrale nella scelta di uno o dell’altro partito? La risposta comunque positiva rispetto al passato suggerisce che, prima o poi, un problema così radicato in America possa trovare una soluzione. Che gli americani, i bianchi in particolare, possano un giorno sposare quel che afferma la Dichiarazione di Indipendenza: tutti gli uomini sono “creati uguali”.

Quello tra aree metropolitane e zone rurali (con le mille sotto-partizioni possibili da compiere), è sicuramente uno dei fondamentali cleavages politici e sociali delle società occidentali. Ma è negli Stati Uniti che questa frattura si è fatta col tempo sempre più radicale e manifesta: la densità abitativa – più del reddito, istruzione o lavoro professionale – è diventata il parametro fondamentale che ci permette di prevedere e misurare le scelte di voto. In particolare, maggiore è tale densità, migliore è il risultato per i democratici; opposto, la minore densità porta vantaggi ai repubblicani. Prendiamo, per esempio, il caso delle elezioni del 2016, in cui Trump sconfisse Hillary Clinton: quello che sarebbe poi divenuto il quarantacinquesimo presidente degli USA, ottenne nelle presidenziali più del doppio dei voti della sua avversaria nei distretti non metropolitani; d’altro canto, l’esponente democratica ottenne la maggior parte dei voti dai centri urbani e dalle città più popolate degli Stati. Le matrici di questa frattura sono diverse, ma tutte indirizzate a far riflettere sull’acuire della polarizzazione politica, culturale ed elettorale del Paese: tutti gli indicatori mostrano non solo che ricerca, sviluppo economico e progresso tecnologico tendono a essere fenomeni quasi “esclusivamente” urbani, ma anche che il gap occupazionale tra aree metropolitane e aree rurali si è nettamente ampliato (soprattutto a partire dalla grande crisi del 2007-08). 

Il risentimento e malcontento delle zone rurali (principalmente formate da comunità bianche) ha permesso a Donald Trump di divenire presidente degli USA, con una possibile prospettiva anche per le successive elezioni. Ma di questo parleremo nel prossimo episodio. 

Arienti Stefano

Arienti Stefano

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