304 elettori su 538. L’8 novembre 2016, Donald Trump sconfigge alle presidenziali Hillary Clinton e diventa il 45° presidente degli Stati Uniti d’America. Inaspettata e rivoluzionaria, come un “fulmine a ciel sereno” la vittoria del leader repubblicano ha shockato non solo parte dell’America, ma tutto il mondo che in quei giorni ha seguito con fervore l’ascesa di un leader tanto “spettacolare” quanto controverso. La vittoria di Trump ha segnato (probabilmente più delle precedenti) un cambiamento dirompente delle campagne presidenziali americane, del “modo di intendere” gli Stati Uniti e il ritorno di un isolazionismo economico che tanto mancava a Washington. Questo terzo e ultimo episodio della rubrica sul funzionamento delle elezioni presidenziali americane si concentra sull’analisi di questa tanto discussa vittoria, su un duello che dava per scontato il successo del Partito Democratico.
“Carbone di taconite e rocce di calcare nutrivano i miei figli e mi mantenevano. Quei fumaioli si stendono come le braccia di Dio in un bel cielo di fuliggine e argilla”. Forse nessuno come Bruce Springsteen in “Youngstown” ha reso immortale la nobiltà degli uomini che un tempo si spezzavano la schiena per alimentare gli altiforni e che vennero traditi dal collasso dell’industria dell’acciaio iniziata negli anni Settanta. Ohio, Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Indiana e West Virginia: è la “Rust Belt”, la “cintura della ruggine”, un tempo orgoglio e vanto dell’industria americana e oggi luogo di rancore e voglia di riscatto di molti macchinisti, minatori e lavoratori stanchi del declino economico. È il 2016 e questa fascia di territori è sempre più attratta dal populismo di Donald Trump, dalle sue politiche isolazioniste e protezionistiche e dalla pretesa di “Make America Great Again” (lo slogan più famoso della campagna di Trump del 2016, tradotto: “Rifacciamo grande l’America”). È il “partito dei lavoratori arrabbiati” ed è stata una delle speranze meglio esposte del repubblicano: sono stati quegli elettori che hanno votato per Trump solo “perchè non è Hillary Clinton”, come affermato dal commerciante di Youngstown Bob Wilson: “Lui sì che porterà indietro i posti di lavoro finiti in Cina o in Messico”. Tra gli anni Settanta e Novanta l’acciaio americano ha perso 260 mila lavoratori, principalmente nella Rust Belt: “L’acciaio è stato spazzato via. E Obama sta distruggendo il carbone e l’industria mineraria. Hillary vuole solo finire il suo lavoro. Solo una faccia nuova può fermare questa deriva”, ha aggiunto il camionista Bill Skinner.
Oltre alla rabbia della Rust Belt, la vittoria di Donald Trump rimane tuttora un problema per i sondaggisti americani. L’idea (e per molti la speranza) positiva dei sondaggi che davano Hillary Clinton in netto vantaggio fallirono miseramente, dando false certezze non soltanto all’elettorato democratico, ma a tutta la campagna elettorale portava avanti da Clinton stessa. Cos’hanno sbagliato i sondaggi del 2016? L’analisi più accurata riguardo al capire “cosa è andato storto” sei anni fa è stata presentata dall’American Association for Public Opinion Research (AAPOR), l’associazione di categoria dei sondaggisti americani, la quale ha individuato almeno due importanti ragioni che hanno provocato il fallimento della Clinton. In primis, i sondaggi risultarono “traballanti” dall’enorme quantità di indecisi: al momento della pubblicazione degli ultimi sondaggi nazionali, il 12% degli americani non sapeva ancora chi avrebbe votato. Gli Stati in bilico furono – “casualmente” – quelli della “Rust Belt”, i quali decisero alla fine di votare per il miliardario repubblicano. Secondo elemento – forse ancora più strabiliante – è che l’insuccesso dei sondaggi fu in parte dovuto alla cosiddetta ipotesi “Shy Trump”: molti elettori repubblicani mentirono ai sondaggisti e non si identificarono come affiliati a Trump, facendo – inevitabilmente – “sballare” i risultati.
La vittoria di Donald Trump fu resa tale anche – e soprattutto – grazie all’utilizzo imponente dei social network. “Più imperscrutabile dei misteri sull’origine dell’universo”, così il fisico Stephen Hawking definì in un’intervista con Itv Good Morning Britain la strana popolarità alle spalle di Donald Trump. Media ostili, fondi per la campagna nettamente a favore di Clinton e l’astio di tanti leader repubblicani hanno portato a pensare alla certa sconfitta dell’imprenditore. Ma non era così tutto “rose e fiori”. “Make America Great Again” e “Drain the swamp” (“bonifichiamo la palude dalla corruzione”), – i due slogan di Trump – rappresentano con forza e chiarezza lo storytelling voluto dall’ex presidente: riportare il Paese all’antico splendore, ribaltare l’establishment passata e presente e attaccare “faccia a faccia” i nemici sia interni (Obama in primis) che quelli esterni (Cina e Corea del Nord, per esempio). La violenza genera violenza, e all’America del 2016 è piaciuto il più “violento”: a differenza degli hashtag della Clinton, pacati e principalmente indirizzati all’oppositore, Trump portò nella sua campagna un totale sguardo alla situazione internazionale americana, una “autentica” descrizione della pessima situazione di Washington, della corruzione e dell’ascesa orientale. Gli americani avevano paura e Trump riuscì perfettamente ad inserirsi nel vuoto buio lasciato dal predecessore Obama.