Le elezioni presidenziali in Francia, parte I: il primo ballottaggio

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Emmanuel Macron, 27,8%. Marine Le Pen, 23,1%. Jean-Luc Mélenchon, 22%. Centro, estrema destra, sinistra. È terminato così il primo ballottaggio dell’undicesima elezione a suffragio universale diretto della Quinta Repubblica francese. Tre ideologie, tre programmi, tre personalità completamente differenti – e talvolta opposte – sopra il venti percento. Il panorama politico francese non è mai stato così frammentato. Strutturato originariamente dal 1965, attorno ad un confronto tra destra e sinistra, nelle sue varie componenti, è oggi caratterizzato da una amplia “rottura” delle grandi famiglie politiche. Destra, Centro e Sinistra: un instabile equilibrio che dimostra una “incertezza popolare” sul futuro del sistema presidenziale di Parigi. Il vincitore del secondo ballottaggio è tutt’altro che ovvio, così come anche la direzione che negli anni prossimi la Francia prenderà, sia a livello locale che internazionale. 

Emmanuel Macron e Marine Le Pen. Sono le due figure che si sfideranno al secondo ballottaggio il 24 aprile. Cambiamenti climatici, pesticidi, energia nucleare, eutanasia, cannabis e migrazione sono solo alcuni dei temi in cui i due candidati esprimono divergenze, nette o contenute che siano. Come già affermato precedentemente, la Francia non sa più dove andare. L’opinione pubblica si è spaccata, dimostrando non solo un’incertezza per il futuro, ma anche una radicale disaffezione partitica. Una pluralità di idee che certamente divide. Se da un lato vedremo una molteplicità di ideologie e discussioni politiche differenti e – speriamo – costruttive all’interno del Parlamento, dall’altro una così drastica divisione ideologica stabile rischia di rallentare ogni atto legislativo da attuare in Francia. Una Francia che, sempre più, sta dimostrando di essere un fulcro importante per tutta l’Europa, a partire dalla crisi in Ucraina. Fortunatamente, su quest’ultimo tema, sia Macron che Le Pen vogliono perseguire una linea maggiormente diplomatica. La salita di uno o dell’altra, però, cambierà l’atteggiamento nei confronti di Kiev: da presidente in carica – anche giustamente – il leader de “La République En Marche” predilige un atteggiamento di sostegno verso lo Stato invaso, sottolineando la necessità di sanzioni “anche più dure” nei confronti di Mosca. Un atteggiamento non completamente parallelo a quello di “Rassemblement National”, attento verso il possibile invio di truppe o armi, rigido sulle dure imposizioni economiche e contrario in questo momento all’ingresso dell’Ucraina nella NATO. 

In questo incerto quadro, la sconfitta del candidato di LFI (“La France Insoumise”), Jean-Luc Mélenchon, appare a molti esperti una grande vittoria. Il sogno del partito dell’ex socialista e dei suoi militanti si è infranto per poche centinaia di migliaia di voti, ma ha consolidato il suo primo posto a sinistra. È una sconfitta onorevole, vestita poi di una risvegliata speranza. “Abbiamo sempre detto che c’era un polo liberale, un polo di estrema destra e un polo popolare” e i risultati del 10 aprile non possono che dargli ragione: la propensione all’unità dell’elettorato di sinistra si è in gran parte tradotta in un voto per il partito di Mélenchon. E se al secondo ballottaggio non ci sarà spazio, la speranza per il futuro è più viva che mai. L’“Unione Popolare” è presente, forte, pronta alle prossime elezioni presidenziali. La “semi-vittoria” del partito è la prova certa della forza del populismo inclusivo: “Dobbiamo trasformare profondamente la società e costruire armonia tra gli esseri umani e con la natura”, così comincia il programma di LFI, unendo chiaramente le pretese delle nuove generazioni sui temi di maggior importanza in questo momento. Dal sostegno di Greenpeace a quello della Convergence Animals Policy (CAP), Mélenchon e il suo entourage sta dimostrando come anche in Europa lo sguardo al futuro – quello vero – può essere la chiave per una vittoria, una soluzione all’immobilismo politico dei “vecchi”. 

 Al di là del duello futuro e della speranza di altri, la Francia dimostra – come il resto dell’Europa – di essere ancora ferma. Chi vincerà avrà comunque ben poco da gioire. Non c’è (più) un’ideale comune, che vada bene a tutti, che accontenti qualsiasi classe sociale. Siamo di fronte sia ad un cambiamento generazionale (osservabile nell’ascesa di Mélenchon) che ad una “morte” degli storici partiti. Una Francia, come un’Europa, non in grado di innalzare un chiaro progetto per l’avvenire.

Arienti Stefano

Arienti Stefano

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