Angola, Etiopia, Eritrea, Iraq, Libia, ex-Jugoslavia. Sono solo alcuni degli Stati a cui, nei decenni scorsi, è stato imposto dalla Comunità internazionale l’embargo, una storia di limitazioni commerciali controversa e, spesso, discutibile, dai risultati talvolta poco soddisfacenti. Sono stati molti, negli ultimi sessant’anni, gli embarghi attuati a vari Paesi non democratici: divieti di transito o di esportazione attuati per bloccare una minaccia considerata “più grande”. Ricordiamo, a tal proposito, quelli dell’ONU nei confronti di AlQaida e dei suoi associati, un tentativo – fallimentare – di fermare il traffico di armi dall’estero e che ha portato alla creazione di uno stabile e radicato mercato nero. Ancora più famosi e storici (e soprattutto ancora in atto) sono i blocchi economici degli Stati Uniti nei confronti di Cuba, inizialmente allo scopo di spodestare Fidel Castro e la sua rivoluzione, ma che, con gli anni, sono divenuti una vera e propria forma oppressiva asfissiante, che è stata condannata nel giugno dell’anno scorso dall’Assemblea Generale dell’ONU. Anche oggi, l’embargo sta diventando un’opzione sempre più plausibile per l’Occidente nei confronti della Russia, limitando i suoi export di gas allo scopo di affossare la sua economia per interrompere l’invasione. La recente storia e gli assenti successi dell’embargo, come anche i possibili danni economici che causerebbe al resto del mondo, fa storcere il naso a molti esperti, i quali evidenziano le tragiche possibilità e scenari che verrebbero a crearsi.
Per fare chiarezza, l’“embargo” è quell’atto o provvedimento giuridico con cui uno Stato o più vietano l’esportazione di armi, munizioni e qualsiasi prodotto che possa servire alle nazioni in guerra per prolungare il conflitto, o con cui, anche fuori da eventi bellici, delibera la sospensione di forniture di determinate merci per esercitare pressioni o ritorsioni di natura politica. Si intende, quindi, una limitazione delle esportazioni o importazioni di tutto ciò che è legato alla forza coercitiva di un Paese, oppure delle materie prime ritenute principali all’interno della Nazione “bloccata”. Giuridicamente parlando, l’embargo viene annunciato all’interno dell’articolo 41 della Carta delle Nazioni Unite, come uno dei tre poteri in mano al Consiglio di sicurezza: l’articolo, in particolare, evidenzia come il Consiglio può decidere quali misure, “non implicanti l’uso della forza”, debbano essere adottate nei confronti di uno o più Stati. L’embargo risulta quindi una manovra che, obbligatoriamente, non deve essere collegata ad alcun mezzo coercitivo, uno strumento di risoluzione (per essere più precisi) da dover sempre attuare prima di procedere con qualsiasi attacco militare.
L’embargo, come possiamo notare dalla sua definizione, ha però il limite principale di essere un mezzo giuridico “generale” e, la maggior parte delle volte, poco efficace. Le sanzioni e le limitazioni che esso porta in gioco hanno effetti “a granata”, ovvero colpiscono indifferentemente chiunque si trovi su quel territorio. Prendiamo nuovamente il caso dell’Iraq, a cui negli anni Novanta si è provato ad imporre – con esagerata forza – un embargo per limitare il governo di Saddam Hussein. Il risultato è stato una crisi economica gigantesca, un aumento enorme della povertà ai danni delle classi più povere del Paese. È una misura che non ha un bersaglio, non sa mai chi colpirà; quasi sempre, però, a subirne gli effetti maggiori sono le classi meno agiate, senza che i leader nazionali vengano minimamente sfiorati da queste limitazioni. Dopo il fallimento iracheno (che ha portato come unici risultati quello della formazione di un mercato nero nascosto e dell’aumento della popolarità di Hussein), la prassi giuridica sull’embargo si è evoluta, cercando di risolvere appunto questa limitatezza d’azione: si è passati, infatti, da misure di embargo generalizzate a cosiddette “smart sanctions”, risoluzioni che vanno a colpire solo quei gruppi o individui responsabili dei crimini, limitando, per esempio, la loro libertà di circolazione fuori dallo Stato.
Tornando al presente, le prime sanzioni pecuniarie nei confronti di Mosca sono risultate tutt’altro che sufficienti. È giunto il momento – per molti esperti – di andare oltre, di considerare addirittura un embargo totale sulle importazioni di energia (gas, petrolio e carbone) dalla Russia. Se USA e Regno Unito hanno già fatto il grande passo, l’Unione Europea mostra grandi divergenze interne, evidenziando le argomentazioni contrarie riferite alla perdita di potere d’acquisto che tali sanzioni indurrebbero. In particolare, due economisti francesi, François Langot e Fabien Tripier, hanno affermato che ogni abitante dell’Unione vedrebbe il proprio consumo diminuire in media di 227 euro all’anno, con ampie disparità tra uno Stato e l’altro: per esempio, la Lituania vedrebbe diminuire il consumo di ciascun abitante di 1.745 euro all’anno, mentre la Francia si piazzerebbe al ventesimo posto, con “soli” 54 euro per francese.
Questi pochi dati e la storia contemporanea dell’embargo giustificano tutti i dubbi e le contro tesi di molti economisti ed esperti. Un embargo, quello sulla Russia, che sicuramente andrebbe a colpire la già povera popolazione russa, noi europei e, da non dimenticare, molti cittadini africani di Paesi alquanto dipendenti dal gas russo.