La globalizzazione, talvolta, non corrisponde ad un miglioramento delle condizioni lavorative. Non sempre il fenomeno di rivoluzione tecnologica è accompagnato da un profitto in ambito umano. È quello che sta succedendo a Meta, la società del giovane miliardario Mark Zuckerberg proprietaria di Facebook, Instagram e Whatsapp, la quale negli ultimi anni si sta scontrando con molti lavoratori nel continente africano, in particolare in Kenya.
Già condannata a fine maggio in Europa riguardo la protezione dei dati, il gruppo californiano è stato attaccato su un nuovo fronte: quello dei lavoratori, i quali si stanno rivoltando per le condizioni di lavoro, licenziamenti e opposizioni ai sindacati.
La situazione di Meta in Kenya
Ripercorriamo, di conseguenza, ciò che è accaduto e sta accadendo a Meta nel territorio di Nairobi e in particolare le due denunce presentate al gruppo negli ultimi due anni. Una prima denuncia venne presentata nel maggio 2022 al Tribunale per l’occupazione e le relazioni lavorative da un ragazzo sudafricano, Daniel Motaung. Egli, in particolare, denunciò condizioni di lavoro “disumane”, modalità di assunzione ingannevoli, retribuzioni irregolari e insufficienti e, infine, mancanza di supporto psicologico di fronte ai traumi causati dall’attività. Inoltre, affermò di essere stato licenziato dopo aver provare a formare un sindacato per difendersi: il caso, tuttavia, non è stato ancora giudicato.
Una seconda denuncia, presentata a marzo di quest’anno, ha visto coinvolgere altri 184 dipendenti, che affermavano di essere stati ingiustamente licenziati dalla società californiana Sama. Quest’ultima, infatti, è responsabile della moderazione dei contenuti social del gruppo Meta per l’Africa sub-sahariana tra il 2019 e il 2023: i suoi, oramai, ex dipendenti hanno chiesto un risarcimento per i loro stipendi “insufficienti” per “il rischio a cui sono stati esposti” e per i “danni causati alla loro salute mentale”. In attesa del giudizio di merito, tali licenziamenti sono stati sospesi il 2 giugno dal Tribunale del Lavoro che ha ordinato a Meta e Sama di “prestare adeguata assistenza psicologica e medica ai denunciati”.
Una vera e propria “schiavitù moderna”, descritta dagli avvocati nell’atto giudiziario durante la prima denuncia dell’anno scorso: “Reclutano moderatori con metodi fraudolenti e ingannevoli, un abuso di potere, sfruttando la vulnerabilità di candidati giovani, poveri e disperati. Molti sono stati assunti e portati in Kenya prima di comprenderne la natura del loro lavoro […] Erano quindi vittime di tratta di esseri umani secondo una moderna forma di schiavitù vietata dall’articolo 30 della Costituzione”.
Un pericoloso equilibrio per le Big Tech (e non solo)
Sono infiniti i casi di denuncia da parte di ONG ed esperti sulle condizioni lavorative disumane che, talvolta, compaiono e ricompaiono sui nostri giornali e media. Dall’estrema povertà del Burundi alle difficoltà economiche della Nigeria, per non dimenticare poi la “schiavitù del cioccolato” in Costa d’Avorio. Situazioni che, tuttavia, hanno come protagonisti delle vicende le grandi multinazionali straniere, principalmente le Big Tech internazionali. Manodopera giovane, povera e disposta a tutto pur di lavorare: non ci può essere condizione migliore per un tiranno dell’economia; e l’Africa si presenta come il luogo ideale in cui trovare questo “paradiso schiavista”. Meta è sicuramente una delle tante aziende che, purtroppo, sottovalutano ancora il lato umano in questo continente. Ma come criticarli se tanto, poi, nessuna denuncia o condanna diviene veramente concreta?