Netanyahu e l’opposizione popolare alla riforma giudiziaria

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Pochi mesi fa, nessuno in Israele, né la coalizione di destra religiosa – salita al potere dopo le elezioni dello scorso novembre – né l’opposizione dei manifestanti di strada e delle élite imprenditoriali che si sono sollevate contro di essa, avrebbe mai immaginato che il Paese sarebbe stato attanagliato da una lotta fondamentale per il futuro del Paese. Sono, appunto, oramai mesi che centinaia di migliaia di israeliani sono scesi in piazza in tutto il paese per protestare contro i cambiamenti di vasta portata del sistema legale israeliano che, secondo molti, andrebbero a minacciare le basi democratiche del paese. Portata avanti ovviamente dal primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu – e supportato dal ministro della giustizia Yariv Levin e dal presidente della Knesset Commissione Costituzione, Diritto e Giustizia, Simcha Rothman -, analizziamo nel seguente articolo la composizione della tanto discussa riforma giudiziaria e le proteste della popolazione.

 

La riforma giudiziaria israeliana di Benjamin Netanyahu

La revisione giudiziaria ha lo scopo di dare al parlamento israeliano, alla Knesset – e quindi ai partiti al potere -, un maggiore controllo sulla magistratura israeliana. In particolare, questa supervisione riguarderebbe il metodo di selezione dei giudici, le leggi su cui la Corte Suprema può pronunciarsi e il nuovo potere del parlamento di ribaltare le decisioni della Corte Suprema. Queste modifiche rappresenterebbero i cambiamenti più significativi per il sistema giudiziario israeliano dalla sua fondazione, nel 1948.

Più nel dettaglio, questa revisione giudiziaria comprenderebbe un pacchetto di progetti di legge, i quali devono tutti passare tre voti alla Knesset prima di divenire legge. Uno degli elementi più importanti per il governo Netanyahu è il disegno di legge che modifica la composizione del comitato di nove membri che andrebbe a selezionare i giudici – in modo da dare così al governo la maggioranza dei seggi nel comitato. Le motivazioni del primo ministro e del suo entourage è che la Corte Suprema sia divenuta un gruppo insulare ed elitario, non più rappresentativo del popolo israeliano. Sostengono infatti che l’organo abbia oramai oltrepassato il suo ruolo, entrando anche in questioni su cui non dovrebbe pronunciarsi. A tal proposito, il secondo elemento significativo (ancor più importante del precedente) è noto come “clausola di annullamento”: essa darebbe la possibilità al parlamento israeliano di approvare leggi precedentemente dichiarate invalide dalla Corte, annullando sostanzialmente qualsiasi potere decisionale dell’organo giuridico. “Andiamo alle urne, votiamo e, di volta in volta, le persone che non abbiamo eletto decidono per noi”, ha affermato il ministro della giustizia Yariv Levin all’inizio di gennaio.

Prima di osservare, però, le reazioni della popolazione, un ultimo punto è necessario prendere in considerazione. All’interno del pacchetto, un progetto di legge avrebbe la possibilità di colpire direttamente Netanyahu: la dichiarazione di un primo ministro “non idoneo alla carica”, in particolare, potrebbe far destituire il controverso capo di stato. Molti critici, però, affermano come tale revisione sia portata avanti da Netanyahu con estrema forza a causa del suo processo per corruzione in corso, accusato di frode e abuso di fiducia: tale disegno di legge, quindi, rappresenterebbe un modo per proteggersi dall’essere dichiarato non idoneo alla carica a seguito del processo: chi voterebbe come “non idoneo” il presidente se è lui stesso a scegliere i giudici della Corte Suprema?.

 

Manifestazioni anche fuori da Israele

Migliaia di israeliani sono scesi domenica 26 marzo a protestare nelle principali piazze dello stato. In particolare dopo che il primo ministro Benjamin Netanyahu ha destituito il suo ministro della Difesa Yoav Gallant che aveva esortato il governo a fermare la riforma giudiziaria, proprio perché non appoggiata dalla maggioranza della popolazione.

Mosse dure che hanno portato a dure reazioni. Soprattutto negli Stati Uniti, dove il console generale israeliano a New York, Asaf Zamir, ha dichiarato su Twitter le sue dimissioni per protestare contro il licenziamento del ministro della Difesa e il cieco avanzare di Netanyahu con il pacchetto di riforme: “Non posso più continuare a rappresentare questo governo”, ha dichiarato Zamir. “Credo sia mio dovere garantire che Israele rimanga un faro di democrazia e libertà nel mondo”.

Forte opposizione portata avanti anche dalle comunità ebraiche liberali negli Stati Uniti, le quali risuonano in solidarietà con i manifestanti delle strade israeliane. Una rivoluzione – o ancor meglio, un risveglio – definibile come “storico”. E altrettanto eclatante è stato l’intervento del rabbino americano Rick Jacobs, presidente dell’Union for Reform Judaism: “Parliamo per amore. Ora è il momento di impegnarsi per uno stato ebraico e democratico. Questi due termini sono oggi minacciati dalla coalizione formata da ultraortodossi e ultranazionalisti, che ha una visione suprematista dell’ebraismo, e non inclusiva di laici e riformisti. Non riesco a immaginare uno stato ebraico non democratico. Loro, sì. Con questi drammatici cambiamenti, tutte le minoranze sarebbero minacciate, per mancanza di una Costituzione e di una Corte Suprema che non le possa più difendere”.

Nonostante Netanyahu, negli ultimi giorni, abbia rallentato la presa di posizione sull’adozione della riforma – a fronte ovviamente dell’impopolarità e delle proteste nazionali -, il pacchetto di legge continua ad essere un pericolo per la democrazia israeliana, la quale rimane ancora appesa ad un filo. E con lei tutta la popolazione dello stato mediorientale.

Arienti Stefano

Arienti Stefano

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