Lo sviluppo delle infrastrutture è spesso identificato come requisito o sintomo per sottolineare lo sviluppo costante di una nazione; o, ancora meglio, afferma le possibilità per una nazione di divenire uno Stato sviluppato. È il caso della Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD), una massiccia diga idroelettrica in costruzione sul fiume Nilo Azzurro in Etiopia. Nonostante il progetto avrebbe tutte le carte in regola per alimentare lo sviluppo della nazione etiopica, Sudan e, soprattutto, Egitto sostengono fermamente una forte opposizione alla costruzione.
Costruire la diga significa prosciugare il Nilo
Dall’inizio della costruzione del GERD, nel 2011, il Cairo ha fermato che tale progetto rappresenta una minaccia per la stabilità egiziana e regionale, e in particolare per la sicurezza idrica statale. Successivamente, nel 2013, il conflitto si è ulteriormente intensificato, quando l’Etiopia ha deciso unilateralmente di deviare il corso del fiume per iniziare la costruzione e costringendo l’Egitto a sollevare il caso al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (qui il link per maggiori informazioni sulla passata crisi umanitaria in Etiopia). Con l’accelerazione del cambiamento climatico, però, la disputa sul Nilo è entrata in una nuova era di complessità, spingendo sempre più stati africani a dover competere per la sicurezza dell’acqua, del cibo e dell’energia. La diga, dal costo totale di oltre 4,5 miliardi di dollari e con un serbatoio di 74 miliardi di metri cubi, dovrebbe arrivare a prosciugare il 25% del fiume Nilo, che causerebbe – secondo Egitto e Sudan – una massiccia siccità per milioni di persone che vivono a nord del grande fiume; inoltre, tale atto ovviamente avrebbe impatto negativo anche sull’agricoltura, che rappresenta il 23% dell’occupazione egiziana e il mezzo di sussistenza principale per milioni di cittadini. Considerando anche i repentini peggioramenti climatici, però, la questione della scarsità d’acqua nel Nilo diventerà probabilmente ancora più estrema negli anni a venire, a fronte del fatto che il fiume fornisce il 97% del fabbisogno idrico dell’Egitto. “Credo che tra uno, due, dieci, cento anni, questo causerà instabilità nella regione. Questi sono i germi dell’instabilità, e causerà una guerra per l’acqua”, dichiarava già nel 2020 l’eminente avvocato per i diritti umani Ahmed al-Mufti, dimissionario dalla delegazione sudanese dopo il silenzio dell’Etiopia durante le contestazioni regionali.
Inoltre, questo conflitto “di tipo ambientale e idrico” si estende anche al di là di Etiopia ed Egitto. Dalla parte di Addis Abeba, la diga è inquadrata come un progetto africano, poiché il fiume è condiviso da 11 paesi africani e l’obiettivo ultimo è quello di sostenere la transazione verde dell’Africa; in opposizione, l’Egitto spiega che gli stessi sviluppi rappresentano una minaccia per la sicurezza idrica araba: al piano ambientale, quindi, si aggiunge anche un piano “politico”, una lotta, un duello per “africanizzare” o “arabizzare” il Nilo.
Un problema anche identitario
Non c’è, però, una sola motivazione idrica dietro l’opposizione egiziana. Si potrebbe anche sostenere, invece, che il progetto GERD minacci la continuità del mondo rappresentato dall’Egitto che vede – e ha sempre visto – il Nilo come un essere vivente inseparabile dalla storia, dalla cultura e dall’identità della civiltà egiziana. D’altro lato, per quanto riguarda l’Etiopia, il GERD non rimane un solo “pezzo” di infrastruttura fisica a sostegno dell’aumento dell’elettricità del paese, ma è anche un simbolo di unità di fronte alla povertà e all’arretratezza percepita: progetto equiparabile alla vittoria etiopica contro l’Italia nella battaglia di Adwa nel 1896, il fiume – che in passato non rappresentava altro che forte fonte di divisione – è ora utilizzato dall’élite al potere per unificare la popolazione sotto una “nuova Etiopia”, socialmente costruita con il GERD al centro.
La contestazione sul GERD, quindi, è anche un conflitto tra l’antica identità dell’Egitto e la nuova identità in costruzione dell’Etiopia, ambedue incentrate sul Nilo. La negoziazione nel contesto di questa lotta di identità è un gioco a somma zero e nessun accordo e mediazione internazionale ha raggiunto, per ora, ottimi risultati; gli stessi USA (sotto l’amministrazione Trump), nel giugno 2020, hanno fallito un tentativo di pacificazione, con il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry che annunciò la possibilità di considerare “altre opzioni” per risolvere la controversia.