“I jihadisti sono come la CIA. Ti mescoli con le persone e sai esattamente chi ha fatto cosa. Chiunque abbia lavorato con i tedeschi è considerato un traditore. Se siamo fortunati, ci puniscono. Ma di solito uccidono” (Abdoulaye Diallo – “Die Zeit”, 9 gennaio 2022). Così la gente locale del Mali, Stato in crisi dal 2012, descrive la vita a contatto con le forze anti-statali che stanno occupando il nord del Paese. Una preoccupazione, in particolare, proveniente da tutte quelle persone che direttamente stanno supportando gli sforzi di Germania, Francia e NATO per liberare lo Stato africano.
Facciamo chiarezza. Come già affermato, dal 2012 lo Stato del Mali è entrato in crisi, quando i ribelli del gruppo etnico tuareg hanno chiesto (violentemente) un proprio stato nel nord del Paese. La situazione è degenerata nel giro di un anno e nel 2013 stavano per conquistare l’intero territorio e per introdurre la Sharia (legge sacra della religione islamica basata sul Corano e tornata d’attualità col ritorno al potere dei talebani in Afghanistan). La situazione ha obbligato la Francia ad intervenire e respingere gli insorti con un’offensiva militare, seguita poi dalla comunità internazionale.
Quest’ultima, col supporto diretto tedesco, ha attuato nell’aprile 2013 la missione MINUSMA (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali), con lo scopo di sostenere un processo politico di transizione e aiutare la stabilizzazione del paese africano attraverso l’invio di 13.000 uomini provenienti da 57 paesi differenti.
La preoccupazione dei locali, principalmente coloro che stanno aiutando esplicitamente le truppe internazionali, è che possa accadere una “nuova Afghanistan”: il 31 agosto, l’abbandono delle truppe americane dei territori afghani ha portato a dure reazioni dei talebani nei confronti di tutti coloro che avevano aiutato gli USA, attraverso anche la morte.
Il tormento che quindi assilla la popolazione del Mali è una possibile medesima risposta nel caso in cui fallisca l’azione della NATO, un progetto che ormai da anni non registra progressi e che anzi si sta deteriorando (tanto che la Francia, la forza straniera più influente nella regione, ha già iniziato missioni di ritiro).
La situazione appare chiara. C’è bisogno di una necessaria presenza straniera all’interno di questi Stati in crisi, continuamente sconvolti da colpi di Stato e attentati di ogni genere. La presenza di Stati e organizzazioni internazionali diviene quindi fondamentale allo scopo di sostenere l’opinione pubblica locale e fermare l’avanzata di gruppi etnici.
Individuiamo di seguito due “linee di contatto” del mondo internazionale e i possibili rischi.
La prima, più dura e diretta, ha lo scopo di esportare politicamente il modello democratico e occidentale; un progetto che ha come rischio quello di dover entrare in contatto militarmente con le popolazioni ribelli e col rischio di “lasciarsi prendere la mano” da un punto di vista culturale.
Una seconda linea, quella provata oggigiorno, è un equilibrio tra le richieste di queste bande autoctone e un controllo politico-economico, ma che sembra invece portare più danni che risultati.