Sappiamo che gli Stati Uniti amano vivere in uno Stato particolarmente controverso. Non esiste il grigio: o è tutto bianco, o è tutto nero. In una parte dell’America si inneggia ad abbattere le statue di Cristoforo Colombo perché schiavista, dall’altra invece ancora afroamericani vengono uccisi dalla polizia solo per il colore della pelle. Questa “peculiarità” tutta statunitense, tuttavia, assume il suo massimo splendore nella Corte Suprema, la più alta corte della magistratura federale degli USA, composta da nove membri che rimangono in carica fino alla loro morte. In una presidenza – quella di Biden – ampiamente concentrata su riforme sociali, attualmente la Corte Suprema vede una maggioranza repubblicana e – è il caso di dirlo – estremamente controversa. Di seguito, perciò, narriamo l’abolizione della cosiddetta Affirmative Action, legge istituita dal presidente Kennedy nel 1961 e che garantisce l’accesso delle minoranze all’università.
Affirmative Action: cosa fu?
A un anno dall’abolizione del diritto federale all’aborto, la Corte Suprema torna a far parlare di sé giovedì 29 giugno con l’abrogazione della Affirmative Action: essa consisteva nel tenere conto dell’etnia durante il processo di ammissione al college. Una decisione che, a ben vedere, infligge un duro colpo ad una pratica istituita decenni fa con l’amministrazione Kennedy e che, durante gli anni, aumentò le opportunità educative per molte minoranze, in particolare per gli afroamericani.
Più nel dettaglio, la legge mira a contrastare i modelli storici di pregiudizio nei confronti di individui con determinate identità e si riferisce tipicamente alle politiche di ammissione volte ad aumentare il numero di studenti di differenti etnie nei campus. L’obiettivo di queste politiche è aumentare la diversità degli studenti al fine di migliorare l’esperienza educativa per tutti gli studenti.
Perché la legge è stata abolita?
Secondo le parole del magistrato John Roberts, che ha scritto a nome della maggioranza conservatrice della Corte Suprema, molte università “erroneamente ritenevano che la base dell’identità di una persona non fosse la sua libertà vigilata, le competenze acquisite o le lezioni apprese, ma il colore della sua pelle. […] In altre parole, lo studente dovrebbe essere trattato sulla base delle sue esperienze individuali, ma non su criteri razziali”.
Una sentenza che trova la sua fonte in una denuncia presentata nel 2014 contro le più antiche università degli US, Harvard e quella della North Carolina. A capo di un’associazione denominata “Students for fair inspection”, il militante neo-conservatore Edward Blum accusò i due centri universitari di discriminare molti studenti asiatici. Quest’ultimi, infatti, avrebbero normalmente risultati accademici nettamente superiori alla media e, di conseguenza, se il rendimento fosse l’unico criterio di selezione (senza quindi tener conto della “Affirmative Action”) sarebbero stati in un numero nettamente maggiore. Dopo continue sconfitte in tribunale, per ironia della sorte ha trovato l’appoggio più consistente nella Corte Suprema che – seppur composta da due giudici afroamericani e un ispanico (mai così “diversificata” nella storia americana) – è composta da sei giudici su nove profondamente conservatori, grazie alle revisioni dell’amministrazione Trump.
Una legge controversa tanto quanto la Corte Suprema
Giusto o sbagliato abolire questa legge? Una risposta è sicuramente impossibile da dare: da un lato la sua introduzione ha aiutato una certa classe sociale e una particolare etnia (quella afroamericana) a sfidare le discriminazioni razziali e ad avere maggiore opportunità nel mondo accademico; d’altro canto, ad un’etnia “avvantaggiata” ce ne sono state altre “svantaggiate”, come dimostrato dall’associazione Students for fair inspection. Secondo un sondaggio del Pew Research Center condotto ad aprile, la metà degli americani disapprova la discriminazione positiva della Affirmative Action, contro un terzo che invece l’approva.
Un elemento da sottolineare, tuttavia, è la facilità con cui la Corte Suprema statunitense ha preso in carico tale legge, abolendo – di punto in bianco – una normativa che vigeva dal 1961. Al di là del disaccordo o meno riguardo alla Affirmative Action, ciò che deve stupire è la “linea unica” che caratterizza oramai dall’amministrazione Trump tale organo giuridico: una Corte Suprema conservatrice/democratica ha la possibilità di costruire uno Stato conservatore/democratico.