Borgogna (1): L’histoire del vino in Francia

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Da noi, gli homini dovrebbero nascere più felici e gioiosi che altrove, et però credo che molta felicità sia agli homini che nascono dove si trovano i vini buoni…” – Leonardo da Vinci. 

Sulle tavole di tutti gli italiani non può certo mancare una buona bottiglia di vino. Rosso, bianco o rosato; ultimamente anche “arancio”. Il gusto, la cultura e l’arte del vino sono tra gli elementi più rinomati del mondo e, sicuramente, un tratto distintivo della nostra penisola. C’è, però, un altro stato che tanto quanto l’Italia si è affermato – e continua ad affermarsi – nel mercato internazionale del vino, addirittura spesso sul primo gradino del podio. La Francia, per la sua antica tradizione enologica, può vantare il più grande mercato del vino a livello internazionale, con esportazioni pari a 11,1 miliardi di euro e una crescita esponenziale fino agli ultimi anni. Guardiamo però con attenzione l’historie della cultura e della tradizione vinicola che tanto identifica il territorio parigino. 

 

Avanti Cristo

Vino pazzo che suole spingere anche l’uomo molto saggio a intonare una canzone e a ridere di gusto, e lo manda su a danzare e lascia sfuggire qualche parola che era meglio tacere” – Omero. La Francia vanta un’antichissima tradizione enologica ed è con certezza il paese la cui cultura del vino ha avuto nel tempo la più grande influenza su tutte le atre nazioni produttrici. 

Nella Grande Nation, la coltivazione della vite apparve circa 2600 anni fa. In particolare, intorno al 600 a.C., i coloni greci lasciarono la città di Focea in Asia Minore (Turchia) per fondare Messalia, la futura Marsiglia. Per qualche decennio, i nuovi arrivati si accontentarono del semplice commercio, importando vini dalla Grecia e dall’Etruria (Toscana) e ridistribuendoli poi negli altri porti del Mediterraneo occidentale. Successivamente, per ragioni alquanto ignote, i Focei decisero – sulle terre e colli che circondavano la città da loro fondata – di piantare la vite per consumo personale. In poco tempo, il territorio cominciò a rilasciare rapidamente numerose eccedenze, costringendo inevitabilmente all’esportazione nell’entroterra: entro la fine del VI secolo a.C., i vini della Massalia si diffusero in tutta la Provenza e Linguadoca; alcuni risalirono la valle del Rodano e altri, addirittura, invasero il sud dell’attuale Germania. 

Da questo momento in poi, il nuovo vino francese divenne una vera e propria “mania”. Dal V secolo i Galli dedicarono alla bevanda un vero e proprio culto (raccontata in svariati scritti dallo stesso Platone), mentre altri autori greci e latini citarono nelle loro opere la novella ossessione. Tito Livio, a tal proposito, nella sua “Storia di Roma dalla sua fondazione” scrisse: “Questa nazione [i Galli], sedotta dal dolce sapore dei frutti d’Italia e soprattutto dal suo vino, voluttà che gli era ancora sconosciuta, aveva attraversato le Alpi e si era impadronita delle terre precedentemente coltivate dagli Etruschi”. Il grande storico latino evoca qui la grande spedizione militare del capo gallico Brennus (390 a.C.), giunto fino a Roma per conquistare la città per il solo bisogno dei guerrieri celtici di “inondare” la loro sete di vino.  

Nel corso dei secoli successivi (tranne un secolo, il III a.C., di misteriosa assenza di vino in Gallia, probabilmente dovuta alla scomparsa delle antiche élite benestanti), e in particolare dal II secolo a.C., le importazioni di vino continuarono a crescere esponenzialmente. Per rispondere al costante aumento, i mercanti romani rafforzarono i loro circuiti commerciali e le esportazioni verso la nazione celtica. 100.000 ettolitri all’anno e centinaia di migliaia di anfore venivano costantemente spedite verso la Gallia e il resto del territorio circostante, anche se la richiesta continuava a superare abbondantemente l’offerta producibile. 

 

Dopo Cristo

A partire dal IV secolo d.C., le innumerevoli ondate dei popoli barbari e il crollo dell’Impero romano d’Occidente (476) portarono crisi e povertà nel territorio francese. La cultura della vite regredì fortemente e la sua sopravvivenza venne messa alle strette. È, però, grazie all’ascesa del cristianesimo e agli “uomini di Dio” che il vigneto gallo-romano riuscì a conservarsi e a non sparire come il vecchio culto dell’Antica Roma. Per ragioni legate alla necessità del culto cristiano (la celebrazione dell’Eucarestia, per esempio, che richiede il vino assimilato al “sangue di Cristo”), i monaci si affrettarono a piantare le ceppi non appena una nuova abbazia veniva fondata; prima venivano coltivate le viti, poi costruite le mura: la produzione di vino anticipava qualsiasi altra attività. Inoltre, in un’epoca di disordini e disorganizzazione economica in cui il vino “viaggiava” poco (il tempo e il costo del trasporto era infatti eccessivamente elevato), le comunità monastiche preferivano produrre personalmente il proprio vino, servendosi della benevolenza dei ricchi e grandi signori, desiderosi di riscattare i loro peccati e salvare la loro anima. Più il cristianesimo si espandeva, più il fabbisogno di vino aumentava. Nelle città furono i vescovi a mantenere viva l’arte del vino e la cultura della vite. Essi coltivavano sui terreni posseduti dalla Chiesa e nei suoi sobborghi, tanto che alcune sedi vescovili – Bordeaux, Rouen, Le Mans, Chartres, … – iniziarono a produrre vini di alta qualità riconosciuta e incrementarono la loro reputazione. 

L’utilizzo del vino non era, però, esclusivamente legato alla celebrazione di pratiche religiose. Sia per i vescovi che per i monaci, offrire vini di sempre più alta qualità ai visitatori divenne un vero e proprio “obbligo sociale”, un modo per aumentare il loro prestigio personale e quello della loro abbazia. Il vino inizia così ad assumere una funzione politica: le comunità monastiche cercarono di elaborare i migliori nettari possibili, al fine di proporli ai potenti clienti sparsi nel territorio francese. La qualità della bevanda aveva l’obiettivo di accrescere la reputazione dell’abbazia, di influenzare positivamente l’aumento delle beneficienze e delle entrate. 

Il legame spirituale (e soprattutto con la figura di Cristo) rimase però il fulcro dell’importanza del vino durante tutto il periodo del Medioevo. Nelle parabole evangeliche, Cristo non esitava ad usare molte “metafore vinicole” per consegnare il suo messaggio: “Io sono il ceppo, voi siete i tralci” è un esempio classico di questo forte legame, la richiesta di una cura attenta da parte del viticoltore, che protegge il suo vigneto allo stesso modo in cui il Signore protegge coloro che gli sono fedeli. Sono molteplici, infatti, i riferimenti biblici ed evangelici al vino. Le nozze di Cana sono uno di miracoli più celebri, in cui Gesù Cristo (durante un pasto di matrimonio) trasforma in vino l’acqua contenuta in sei grandi vasi di pietra. Ma, soprattutto, il vino occupa un posto più che centrale durante l’Ultima Cena, l’ultimo pasto che Cristo condivide con gli apostoli il giorno prima del suo arresto. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue [il vino] avrà la vita eterna e risorgerà all’ultimo giorno”. Questo messaggio e la centralità della bevanda nell’opera contribuiranno fortemente all’ascesa della vite e del vino nell’Occidente cristiano medioevale.

Ambivalente fonte di vita, sacrificio e morte, ma anche crescita economica e incremento reputazionale, il vino divenne “immortale” e riuscì, così, a conservarsi nella cultura francese e mondiale fino ai giorni d’oggi. 

Arienti Stefano

Arienti Stefano

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