Così come in Europa con Francia e Spagna, anche la Corea del Sud nelle ultime settimane si è contornata di molteplici proteste e centinaia di migliaia di protestanti, scesi nelle piazze di Seoul per protestare. Analizziamo nel seguente articolo le due principali manifestazioni – ovviamente pacifiche e “in stile asiatico” – che hanno caratterizzato la metà meridionale della penisola coreana.
Nelle piazze della Corea del Sud contro l’aumento delle ore lavorative
9 marzo, il ministero del lavoro della Corea del Sud ha dichiarato l’intenzione e la necessità di aumentare l’orario di lavoro settimanale massimo a 69 ore, dopo che differenti gruppi di imprese si erano lamentati del fatto che l’attuale limite di 52 ore rendeva difficile il rispetto delle scadenze. In particolare, il ministero ha dichiarato come l’innalzamento del tetto orario settimanale offrirebbe alle madri-lavoratrici più scelta e le aiuterà a crescere i figli tra le crescenti preoccupazioni per il calo dei tassi di natalità nel Paese. “Introdurremo misure coraggiose per aiutare a ridurre l’orario di lavoro durante la gravidanza o durante l’educazione dei figli”, ha confermato il ministro Lee Jung-sik durante un’intervista.
Una legge alquanto contraddittoria: come fa una madre ad avere più tempo se deve lavorare di più per prendersi le ferie? E soprattutto se il passaggio è dalle 52 ore alle 69. Immediatamente, molti critici hanno affermato come queste misure andrebbero a danneggiare le madri che lavorano: “Mentre gli uomini lavoreranno per lunghe ore e saranno esentati dalle responsabilità e dai diritti di cura, le donne dovranno fare tutto il lavoro di cura”, ha affermato in una delle ultime dichiarazioni la Korean Women’s Associations United.
Questa contraddittorietà ha subito portato ad una grande protesta da parte delle nuove generazioni, scese nelle piazze di Seoul per protestare in massa contro la possibile riforma. E, a differenza del governo francese e Macron che – impopolarmente – ha emanato la riforma pensionistica, il governo sudcoreano ha deciso per un dietrofront. Le proteste dei Millenial e della Generazione Z del paese hanno spinto il presidente Yoon Suk-yeol a ordinare alle agenzie governative di riconsiderare la misura e “comunicare meglio con il pubblico, specialmente con la Generazione Z e i Millenial”.
La legge sarebbe risultata inapplicabile per soprattutto due problemi principali. Il primo è che la Corea del Sud è lo stato con il tasso di fertilità più basso al mondo: 0,78 nel 2022, meno di un figlio per donna. Secondariamente, invece, il secondo problema è l’eccessiva possibilità lasciata alle persone di lavorare, anche per lunghi periodi di tempo: “Renderà legale lavorare dalle 9 del mattino a mezzanotte per cinque giorni di fila. Non c’è rispetto per la salute e il riposo dei lavoratori”, ha dichiarato la Confederazione coreana dei sindacati in una nota. Problema ancor più considerevole se si considera che i sudcoreani lavorano in media 1915 ore nel 2021, 199 ore in più rispetto alla media europea, secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) – a fronte di molti stati democratici occidentali, quali Spagna e Gran Bretagna, che stanno sperimentando con successo la settimana lavorativa di quattro giorni.
La protesta contro il Giappone
Yang Geum-deok, una bambina sudcoreana degli anni Quaranta, sognava di diventare un insegnante. A soli 13 anni decise di falsificare i documenti necessari e abbandonò la sua casa nella provincia di South Jeolla: il sogno – quasi realtà – era quello di andare a lavorare in Giappone, sovrano coloniale del paese in quegli anni. Ad accoglierla, però, non ci fu mai una scuola giapponese, ma una fabbrica di aeroplani gestita da Mitsubishi. “Ho lavorato quasi fino alla morte e non sono mai stata pagata”, ricorda oggi la vittima, la cui speranza è quella che “i trasgressori offrano scuse sincere prima che io muoia”.
Un problema che va avanti, oramai, da molti decenni (link per la storia della dipendenza sudcoreana verso il Giappone negli anni Quaranta). E che il governo sudcoreano ha “provato” a risolvere. Come? Secondo il piano del presidente Yoon Suk Yeol, annunciato il 6 marzo, la Corea del Sud compenserebbe gli ex lavoratori forzati attraverso una fondazione pubblica esistente finanziata da società del settore privato sudcoreane, piuttosto che chiedere pagamenti direttamente al Giappone.
Diverse vittime sono scese in piazza per opporsi. E con loro centinaia di migliaia di persone che per ore hanno sventolato striscioni e cartelli, definendo “umiliante” la diplomazia di Yoon e chiedendo la revoca dell’accordo. Seppur il risarcimento per ogni donna è stimato a circa 160mila euro, le principali quindici querelanti affermano di voler rifiutare il piano del governo, ponendo le basi per ulteriori battaglie legali e, sicuramente, per nuove e future proteste. “È così ingiusto. Non so da dove venga Yoon Suk Yeol. È davvero un sudcoreano? Non accetterò quei soldi anche se morirò di fame”, ha affermato una vittima, cantando in coro “Yoon Suk Yeol Out!” (“Fuori Yoon Suk Yeol!”).