Ogni avvenimento, incontro ed esperienza porta con sé una “scia” di conseguenze. L’essere umano, soprattutto nella sua componente più inconscia, tende ad immagazzinare le sensazioni e i ricordi che più lo hanno colpito in una data situazione, e ciò vale sia nella sua accezione positiva che negativa. Per questa ragione nel momento in cui passiamo attraverso momenti traumatici o di estremo pericolo, la paura, l’ansia e lo shock emotivo non si limitano all’avvenimento ma ci “perseguitano” per diverso tempo. Ma come reagisce l’umano agli eventi traumatici?
La corrente di pensiero che più ha preso piede negli ultimi trent’anni presenta come mantra la celebre frase di Nietzsche: “Ciò che non mi uccide mi rende più forte”. Da questo aforisma è nato il concetto di Post-traumatic growth, ovvero la crescita post-traumatica (PTG), un concetto nato dalle ricerche di Richard Tedeschi e Lawrence Calhoun, due psicologi e ricercatori dell’Università della Carolina del Nord che hanno condotto diversi studi pionieristici nel campo delle reazioni umane agli avvenimenti traumatici. I due hanno notato come molti dei loro pazienti, caratterizzati da un passato a dir poco buio, non si sono fermati al dolore e alla sofferenza dell’accaduto ma sono riusciti a conferire un significato diverso e più profondo all’esistenza.
La ricerca di Tedeschi e Calhoun ha avuto come protagonisti i cosiddetti “sopravvissuti”, ovvero persone che si sono trovate a dover affrontare situazioni molto gravi, durante le quali hanno rischiato di perdere la vita oppure hanno durante le quali hanno visto morire persone molto vicine a loro. In molti casi gli intervistati avevano subito abusi sessuali, erano riusciti a sconfiggere cancri a stadi avanzati oppure sono stati costretti a lasciare, per via di guerre, carestie o oppressione, la propria nazione natale. Studi successivi a quelli condotti negli anni Novanta hanno dimostrato come fino al 70% di questa categoria di uomini – i sopravvissuti – potrebbe sperimentare la PTG. La crescita post traumatica viene descritta dalla psicologa americana Amy Canevello come il tentativo di ricostruzione e ricomposizione delle convinzioni fondamentali che sono andate, precedentemente, in frantumi a causa del trauma subito. Citando le sue parole: “La crescita post-traumatica, almeno in teoria, è il risultato del tuo tentativo di ricomporre la tua visione del mondo in un modo che incorpori quell’evento traumatico. Esci dall’altra parte con un aspetto diverso in qualche modo”. La veridicità di questa interpretazione viene dimostrata da alcune recenti ricerche, le quali hanno mostrato come il livello di crescita personale a seguito di un evento tragico sia direttamente proporzionale alle “ruminazione” del soggetto. In poche parole, più la persona pensa, parla, sviscera il proprio tragico passato, più sarà possibile trarre da esso risvolti positivi e motivazioni nuove. È di certo un percorso lungo e doloroso che però, col tempo, può portare il “sopravvissuto” a guardare al trauma con più consapevolezza e serenità. La crescita post-traumatica quindi nasce, quasi sempre, dalle macerie, nasce dal suo antagonista: lo stress post-traumatico. È da una rottura del sé che parte il processo di ricostruzione della vita.
È innegabile che questo tipo di risvolto positivo a seguito di un evento drammatico esista e si sviluppi in molti casi, ma alcuni studi condotti su reduci di guerra e terremotati hanno dimostrato come diversi dati raccolti in passato siano, in realtà, inattendibili a causa di alcuni difetti presenti nella tipologia di domande condotte sui pazienti. Il sondaggio più diffuso nei casi di PTG è il Post-traumatic Growth Inventory (PTGI), all’interno del quale sono presenti diverse affermazioni pensate per descrivere i cambiamenti avvenuti dopo il trauma. A fianco di tali assunti vengono posti cinque “gradi di frequenza” dove zero equivale a “non ho sperimentato questo cambiamento come risultato della mia crisi” e il cinque significa: “ho vissuto questo cambiamento in grande misura come risultato della mia crisi”. In tale sondaggio, quindi, non è data la possibilità di esprimere un peggioramento della condizione psicologica e ciò sembra influisce non poco sui risultati effettivi. In uno studio condotto nel 2015 sui superstiti del terremoto di Canterbury fu, invece, data la possibilità di segnalare anche un cambiamento negativo delle condizioni di vita e l’evidenza di una crescita post-traumatica dilagante era di gran lunga meno convincente rispetto alle ricerche standard.
Inoltre, vi è la possibilità che la distorsione della memoria distorca i risultati. Durante il PTGI, i soggetti sono costretti a guardare al passato e confrontare il sé precedente al sé odierno e misurare quanto il cambiamento avvenuto sia dato dal trauma che hanno affrontato. La memoria conscia è inaffidabile rispetto a questo tipo di dinamiche. Molte ricerche e studi hanno dimostrato come la maggior parte delle persone sia propensa a trovare miglioramenti nella propria vita nel tempo, anche se la realtà rema contro a questa idea.
La PTG sta prendendo molto piede all’interno del mondo psicologico. La possibilità di crescita esiste anche se non è presente in maniera così massiccia come si pensava un tempo. Lo stress-post traumatico può essere superato e può avere conseguenze positive sulla persona e questa nuova consapevolezza sta rivoluzionando il modo di guardare agli eventi traumatici. Nessun uomo è in grado di far dimenticare del tutto un avvenimento tragico, sarebbe innaturale e autodistruttivo, nessuno è in grado di uscire dal dolore e dalla paura al cento per cento ma da questo dolore è possibile che nasca qualcosa di positivo e forse, a questo punto, la frase di Nietzsche potrebbe suonare in modo diverso: “ciò che non mi uccide può darmi una nuova vita”.