Donne, aziende e gravidanza

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Il Covid-19 ha modificato le abitudini del mondo intero in dodici giorni. Una donna italiana in gravidanza ha diritto a cinque mesi di congedo da tutte le attività lavorative. Tuttavia, in questi anni, pur essendo state introdotte diverse leggi per assicurare completa sicurezza sia alla donna che al futuro bambino, si sono registrati diversi casi di abusi e di violenza ai danni delle lavoratrici da parte di datori di lavoro e aziende che, in un mondo che cambia in una decina di giorni, richiedono un livello di lavoro difficilmente sostenibile soprattutto nelle condizioni fisiche che la gravidanza porta con sé.

 

Negli ultimi decenni, molte Nazioni hanno deciso di introdurre leggi in tutela delle donne in dolce attesa, riguardanti, prevalentemente, gli orari di lavoro e la flessibilità nel concedere permessi per visite e problematiche. Ad oggi, ancora quaranta stati non si sono mossi per tutelare questa categoria ed altri, come per esempio il Sudafrica, vanno a legittimare le discriminazioni e i licenziamenti delle lavoratrici, prediligendo lo sviluppo economico piuttosto che i diritti umani. In tutto il mondo si verificano gravi abusi: datori di lavoro, giornalmente, criticano e denigrano le donne, che hanno come unica “colpa” quella di essere incinta. Pur essendo state introdotte nel panorama legislativo mondiale diverse tutele, sembra che il diritto non riesca a varcare la soglia di diverse aziende.

 

Perché molte donne tacciono a riguardo delle violenze?

Molte lavoratrici preferiscono tacere per paura o per incoscienza. Le aziende e i datori di lavoro, secondo le testimonianze, tendono a delegittimare l’operato delle dipendenti in gravidanza, creando un’atmosfera soffocante in cui la donna si sente costantemente additata e denigrata. Il gruppo dirigenziale è, solitamente, l’epicentro della tendenza discriminante che, tuttavia, viene accolta anche da colleghi e dipendenti. Essi appoggiano, o tacciono, a tale riguardo per paura di divergere dalle posizioni adottate dai vertici e delle conseguenze che tali azioni possono portare. In tali condizioni le lavoratrici si sentono azzerate e il loro lavoro viene costantemente messo in discussione. Questa violenza dilagante ha come obiettivo quello di minare l’autostima della “futura madre”, la quale, inevitabilmente, inizia a concepirsi come incapace di dare un contributo all’azienda. In questa dinamica vengono a confondersi i ruoli: la vittima viene ad essere il carnefice mentre chi commette il crimine rimane impunito.

 

Se fino a pochi anni fa i figli venivano considerati come la ricchezza di una famiglia e di una società, ad oggi, la “dolce attesa” è vista, in ambito lavorativo, come una perdita di tempo e soldi inaccettabile. Giornalmente, lavoratrici in “stato interessante” sono costrette a sopportare abusi psicologici e, tuttavia, rimane più conveniente tacere e accettare che tale politica di terrore continui a mietere vittime, non in grado di far valere i propri diritti, in quanto non si concepiscono come oppresse da questo gioco malato.

Arienti Stefano

Arienti Stefano

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