L’11 gennaio è stato il 20esimo anniversario della fondazione del “Guantanamo Bay detention camp”. Si tratta di una prigione militare statunitense nella base navale di Guantanamo Bay, nella parte sud-orientale di Cuba, divenuta famosa per i suoi metodi di detenzione ai limiti della dignità umana e citata spesso in giudizio dalle più grandi associazioni umanitarie del mondo.
Inaugurato nel 2002, il campo di detenzione venne stipato di terroristi islamici, veri o presunti. Al suo interno si trovava “il peggio del peggio”, secondo le parole di Dick Cheney (vicepresidente degli Stati Uniti dal 2001 al 2009 sotto l’amministrazione di George W.Bush): “L’unica alternativa alla creazione di Guantanamo Bay sarebbe stata uccidere direttamente i sospetti terroristi. Noi però non agiamo in questo modo”, ha continuato l’ex vicepresidente.
Dal 2002 la struttura ha ospitato quasi 800 detenuti, tutti prigionieri in attesa di un processo (e talvolta mai arrivato). Oggi ne rimangono solo 39, tredici dei quali sono definiti come “trattenuti a tempo indefinito”, a cui non è neanche prevista la possibilità di un’inchiesta.
I motivi delle molteplici sanzioni umanitarie, arrivate nei giorni scorsi anche dalla rivale Cina, sono soprattutto state le tecniche di interrogatori e i sistemi di tortura utilizzati nel corso di questo ventennio.
Questa macabra architettura è stata frutto di due psicologi ingaggiati direttamente dalla CIA nell’anno della creazione del campo. Lo scopo di James Mitchell e Bruce Jessen era quello di definire e stilare un “programma di tecniche di interrogatorio severe”, con fulcro le tecniche del “waterboarding” (“annegamento controllato”), privazione del sonno o detenzione in strette celle d’isolamento (53 cm di larghezza e 76 cm di altezza). Il tutto seguito da estenuanti interrogatori, della durata di anche 18 ore al giorno.
Agghiaccianti sono le testimonianze degli ex prigionieri. Ahmed Rabbani, rilasciato lo scorso anno, afferma di essere stato torturato dagli americani per 540 giorni, dopo essere stato venduto alla CIA senza giustificazioni e per poi essere rinchiuso diciassette anni a Guantanamo Bay.
James Mitchell, rinnegato nel 2017 dall’American Psychological Association, ha sempre difeso il suo operato: “Il dovere morale di proteggere le vite dei miei connazionali prevale sulle sofferenze che avrei provocato nei terroristi che ci avevano attaccato volontariamente”.
Nulla è cambiato da quell’11 gennaio 2002, così come anche i falsi tentativi delle amministrazioni che si sono succedute in questi anni.
Non ci si poteva aspettare niente dalla presidenza Bush, ideatrice dell’Operazione “Enduring Freedom” (missioni militari statunitensi in Afghanistan dopo l’11 settembre, dal diritto internazionali condannate per la loro sproporzionalità) e della prigione di Guantanamo Bay. Nel 2005, il presidente, famoso per la sua teatrale spudoratezza, affermò che “i prigionieri sono trattati bene a Guantanamo. C’è totale trasparenza”.
Fallimentari sono e sono state anche le amministrazioni Biden e Obama, fedifraghe delle loro promesse. Paradossalmente, il più coerente è stato l’ex presidente Trump, il quale ha sempre difeso l’operatività e l’utilità della prigione.
Guantanamo Bay è stato e, fino alla sua chiusura, rimarrà una delle più forti dimostrazioni di quella tanto nascosta seconda faccia dell’America, “Caino” dei diritti e della dignità umana. Sfoggio della – sproporzionata – vendetta statunitense verso il terrorismo e “gulag dei nostri tempi” (definizione di Amnesty International). “Disastro per le pubbliche relazioni internazionali”, definito da un anonimo funzionario della Defense Intelligence Agency statunitense già nel 2004: “Per ogni detenuto, suppongo che crei altri dieci terroristi o sostenitori del terrorismo”.
Come viene scritto da Clive Stafford Smith (Aljazeera), è “forse l’autogol più sciocco nella storia degli Stati Uniti”, un campo creato per fermare il terrorismo islamico ma che ha spinto migliaia di giovani ad odiare ancora di più gli USA.
L’ “occhio per occhio, dente per dente” americano non è stato altro che un buco nell’acqua: hanno cercato di sparare ad un “nemico-fantasma”, invisibile per estensione e distruttivo per dispersione; un tentativo vano di voler dare una forma arbitraria ad un nemico molto più complesso, attaccando “a tappeto” un mondo culturalmente diverso e difficile da identificare.
Invece che combattere il terrorismo, l’America lo ha e lo sta solamente alimentando.