I social portano al suicidio

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I social network sono oggi lo strumento di socializzazione principale per gli adolescenti di tutto il mondo, è il loro “biglietto da visita” per mostrarsi e integrarsi nella società. Come nella vita reale, però, nella Rete esistono ragazzi più estroversi e ragazzi più introversi.

L’instabilità d’animo e la fragilità è aumenta esponenzialmente con i social media: prendendo solamente gli adolescenti americani, questa “insicurezza mediatica” è cresciuta del 36% negli ultimi anni; indice che aumenta considerevolmente se si esamina solo il target femminile (45%).

La possibilità di “essere sempre online” è la causa di questa nuova debolezza, presente in almeno mezzo milione di ragazzi americani tra i tredici e i diciott’anni, portando come possibili  conseguenze l’autolesionismo e il suicidio.

 

Selena Rodriguez, residente della città di Enfield (Connecticut), si è tolta la vita , nell’anno passato. La madre ha citato in giudizio “Meta and Snap Inc” (società madre di Instagram e Facebook), sostenendo come la causa del tragico atto della figlia sia stata la dipendenza dalle piattaforme social. Inutile sono stati i tentativi di confisco dei dispositivi per la bambina, la quale già da mesi soffriva di privazione del sonno e depressione, alimentati dall’arrivo della pandemia.

Non è il primo caso e non sarà sicuramente l’ultimo. Le futili scuse della stessa società e dell’amministratore delegato Mark Zuckerberg non risolvono il problema di un sistema informatico “non etico”, concentrato indistintamente a “far apparire” qualsiasi idea , opinione o punto di vista senza il minimo controllo critico ed etico.

 

Una simile situazione si è venuta a creare l’anno scorso in un’altra gigantesca piattaforma social, TikTok, questa volta sotto forma di “gioco”. La “Blackout Challenge” è stato un folle ed estremo inganno andato di moda tra i ragazzini di tutto il mondo, una prova di resistenza che consisteva nel mostrare la propria capacità di resistere il maggior tempo possibile con una cintura stretta intorno al collo. Ciò che rende questa assurdità tale è il dover “mostrarsi”, pubblicare il proprio video sulla piattaforma per ricevere “likes” mentre si sta svenendo per la mancanza di ossigeno.

Tra le vittime di questo tremendo gioco, troviamo anche una bambina palermitana: il 21 gennaio dello scorso anno, l’agenzia di stampa Ansa ha diffuso la notizia della morte di una bambina, arrivata all’ospedale Giovanni di Cristina in arresto cardiocircolatorio subentrato dopo un’asfissia prolungata. Le indagini seguenti della polizia hanno dimostrato come la causa del decesso fosse proprio il tentativo di imitazione di questa “sfida della sospensione”.

 

In tutto il mondo si registrano situazioni del genere, anche meno “estreme” e che portano molti giovani all’autolesionismo o a parlare di personali tentativi di suicidio su forum appositi (incentivati da altri utenti). Le grandi aziende come Instagram hanno già lanciato nuove tecnologie per riconoscere contenuti di autolesionismo e suicidio sulle loro app, ma circostanze di questo genere continuano a manifestarsi.

Quello che queste aziende non possono fare è gestire la nostra vita reale: possono essere diminuiti video dai contenuti sensibili, ma non possono limitare i ragazzi a compiere gesti e atti estremi. La colpa, quindi, non è solo di queste tecnologie.

Romano Pesavento, presidente del Coordinamento nazionale docenti della disciplina “diritti umani”, ha affermato la necessità di un nuovo ruolo di scuole e famiglie nel placare l’ansia e la depressione provocata dai “new media”. “Educare i ragazzi all’utilizzo dei social e aprire sportelli d’ascolto nelle scuole. Ma subito, per prevenire altre tragedie”. I docenti e i genitori hanno l’obbligo di aiutare e far crescere la consapevolezza delle nuove generazioni, “in un momento in cui la vita sembra essere diventata una questione di like”.

È facile additare e – anche giustamente – portare in giudizio queste aziende fornitrici di servizi mediatici, smuovendosi solo dopo che la tragedia è avvenuta. È molto più difficile, invece, creare un lavoro comune globale di ascolto e supporto, un’intesa sociale di protezione e prevenzione; creare una fiducia verso il genitore e la scuola senza arrivare al punto di confiscare o mettere in punizione le nuove generazioni, le quali si avvicinano al mondo social in un’età molto più bassa rispetto a prima. “Accanto alle norme per evitare contagi, dovrebbero esserci anche dei supporti psicologici”. Ciò che appare chiaro è la distanza di dialogo tra genitori e figli , che non riconoscendo nelle figure genitoriali un punto di riferimento per la comprensione dei loro drammi si abbandonano alla possibilità di esibizionismo offerte dalle piattaforme social.

Arienti Stefano

Arienti Stefano

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