Il cambiamento climatico e il razzismo sono due delle maggiori sfide del 21° secolo, apparentemente sconosciuti; in realtà esiste un legame sottile che li accomuna.
Esistono molte dimensioni del razzismo. La più visibile ed esplicita a livello mediatico e non è quella interpersonale, che corrisponde ad abusi fisici e virtuali nei confronti di una classe sociale disagiata, anche semplicemente attraverso questioni di pregiudizi e stereotipi. Ci sono, però, livelli di razzismo molto più profondi e radicati, tra cui quello ambientale: c’è un netto divario tra chi ha causato e sta causando il cambiamento climatico e chi ne sta subendo realmente i peggiori effetti.
Il riscaldamento globale e il cambiamento climatico vengono spesso intesi come un “solo” problema ambientale, in cui ci troviamo tutti assieme e che sta traghettando gli uomini di tutto il mondo alle medesime conseguenze. Non è così. L’interpretazione razzista di questo tema implica il come le catastrofi ambientali stiano effettivamente colpendo in maniera più disastrosa i Paesi del Sud del mondo, nonostante il loro impatto diretto sull’ecosistema sia minimo. Quello che nasconde questo fenomeno dagli “occhi mediatici” e dai giornali è l’assenza di un “razzista” da identificare e incolpare: non esiste un comitato segreto che complotta per scatenare un disastro ecologico nella parte Sud del globo; eppure, le persone – principalmente nere – si trovano ancora in una posizione di svantaggio.
Lo Zambia è uno di quei paesi dell’emisfero australe che testimonia questa ingiustizia ambientale. Nonostante l’impronta di carbonio media del Paese sia meno di un decimo di quella del Regno Unito, la prolungata siccità, l’aumento della temperatura e il fallimento di raccolti e allevamento mostrano una delle crisi umanitarie più sottostimate dell’ultimo anno. La conseguenza principale (oltre le morti per l’inquinamento e problemi cardio-respiratori) sarà ovviamente la povertà che, secondo lo Zambia Statistics Agency, è stimata al 55% della popolazione e al 78% nelle zone rurali.
Questa esclusione si aggrava ulteriormente quando si estende ai negoziati internazionali. Secondo il governo zambiano e Future Planet, le voci africane non vengono ben rappresentate nei vertici sul clima: alla COP 26 di Glasgow, la mancanza di vaccini e di finanziamenti per molti Paesi africani, ha reso impossibile la presenza di molti delegati e attivisti.
Non solo in Africa e, più limitatamente, in Asia possiamo vedere queste differenze. Anche nelle metropoli degli Stati Uniti troviamo ampie differenze tra classi sociali, alcune più “punite” dai cambiamenti climatici. Quando l’uragano Katrina ha colpito New Orleans nel 2005, sono stati i quartieri neri della città a subire il peso maggiore della tempesta; medesima situazione dodici anni dopo, quando l’uragano Harvey distrusse i quartieri neri di Houston. In entrambi i casi, i disastri ambientali hanno aggravato quei problemi già esistenti da anni, prolungandoli ulteriormente.
Sempre negli USA, alcuni attivisti hanno identificato già negli anni ‘80 una presenza ripetitiva di discariche e inceneritori vicino a molti quartieri neri dello Stato: le indagini hanno mostrato che i residenti di queste zone sono maggiormente esposti a livelli di inquinamento più elevati.
Non possiamo definire il razzismo ambientale come qualcosa di volontario. Sappiamo per certo, però, che secoli di rapporti di potere ineguali hanno posto su due piani completamente differenti diverse zone del mondo. L’ingiustizia strutturale formatasi dal colonialismo invasivo europeo, è oggi dimostrata e alimentata dal dramma ambientale. Il flusso di ricchezza è il medesimo dell’Ottocento, con ricchi paesi bianchi che estraggono ciò di cui hanno bisogno da altri Paesi, istituzionalmente poveri.
È il momento delle scelte: affrontare il problema ambientale come singolo o come un mondo di fratture. Il cambiamento climatico può essere un momento di scopo condiviso o il prossimo capitolo di una lunga storia di oppressione razziale.