In Uganda, il 50% di tutti i pazienti affetti da Aids hanno ricevuto farmaci salvavita grazie ad un nuovo innovativo programma per la formazione di infermieri. Nel Mali, i programmi per la ripartizione dei costi hanno fornito personale addestrato in materia di ostetrica e tagli cesarei d’emergenza, rendendo possibili soluzioni prima impossibili da attuare. In Sudafrica, molti giovani medici e studenti di medicina si starebbero recando nelle zone agricole isolate per formare un sistema di accesso a servizi medici di base che prima mancava. Questi incoraggianti dati portati in campo dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), registrati in “The African Regional Health Report: The Health of the people”, sono però solo un lato della medaglia della sanità africana, nettamente ancora arretrata rispetto il resto del mondo e con un’assistenza base sottosviluppata.
Uno dei maggiori problemi, oltre alla scarsa conoscenza medica delle strutture sanitarie, è il fenomeno del “medical brain drain”: traducibile in “fuga di cervelli medici”, si indica quell’evento che produce come conseguenza il trasferimento di, in questo caso, medici e personale sanitario da uno Stato ad un altro, nel quale trovare migliori opportunità lavorative e retribuzioni più elevate. Secondo le Nazioni Unite, il Continente africano soffre “il più grande carico di malattie del pianeta per popolazione”, e solo il 3% del personale sanitario globale rimane nel territorio. Mentre l’OMS conta un fabbisogno di 13,4 operatori ogni mille abitanti per raggiungere i cosiddetti livelli minimi di copertura sanitaria universale (UHC), in Africa sono ancora 615 milioni le persone escluse dalle cure essenziali: in particolare, recenti studi denunciano una media di 2,9 professionisti ospedalieri per mille pazienti; ciò vuol dire che meno di una persona deve rispondere alle esigenze di mille persone. Questa è solo una media, e nei Paesi più poveri come Madagascar, Benin, Niger, Ciad, questo dato scende addirittura sotto lo 0,5.
Oltre a questa precaria situazione e ad un continente a cui è destinato, secondo la Brooking Institution, meno dell’1% del finanziamento globale per la salute, sarà quindi chiara e giustificata la pretesa di molte giovani menti di scappare dall’Africa per prestare servizio in Paesi con un reddito maggiore. La Pandemia ha sicuramente accelerato questo fenomeno che, però, venne già preso in considerazione nel 2016 in Italia, quando la Concord Italia (piattaforma di collegamento di 1600 Ong), accogliendo favorevolmente il “decreto flussi 2016”, mise in guardia dal rischio che questo strumento poteva esponenzialmente aumentare l’esodo del personale sanitario. Questo decreto, nel dettaglio, consentiva “l’ingresso per motivi di lavoro autonomo di 2400 cittadini non comunitari residenti all’estero, tra cui anche liberi professionisti che intendono esercitare professioni regolamentate o vigilate”; l’assenza di specifiche di questo paragrafo, ha aperto le porte all’impiego – soprattutto nella sanità privata – di medici e infermieri provenienti da quei Paesi con già gravi carenze di personale, quindi dall’Africa.
Se la salute è considerata un aspetto chiave dello sviluppo umano ed economico, questo concetto sicuramente non vale in Africa. Un chirurgo a New York guadagna una media di 400 mila dollari l’anno; in Zambia poco più di 12 mila nei Paesi “migliori”. Prendiamo, per esempio, il caso dello Zimbabwe, nel quale ancora si opera a mani nude e per duecento dollari al mese. I pazienti hanno il compito di procurarsi prima di arrivare in ospedale il materiale per le operazioni, supportati, quando è possibile, dai sanitari. Nella clinica Warren Park Polyclinic, nella capitale Harare, si trovano solamente quattro infermieri in servizio per una struttura che serve centinaia di persone ogni giorno: due in reparto maternità, una per gli ambulatori e l’altra per i servizi alle famiglie. La maggior parte delle cliniche funziona solo al 50%, con infermieri sempre più stressati e frustrati, spinti alla fuga in Europa o in cliniche private di Stati vicini. Il Regno Unito ha avviato una campagna di reclutamento per professionisti medici allo scopo di colmare la carenza di personale a causa della pandemia e della Brexit: di fronte al guadagno minimo dello Zimbabwe, possiamo immaginare il grande flusso di infermieri che negli ultimi mesi abbandona tutto per trovare fortuna in Inghilterra o in Irlanda.
La soddisfazione di guadagnare dieci volte di più rispetto a quello che si guadagnava mesi prima nella propria terra natia. La possibilità di avere cure e medicine immediate o di non attraversare un travaglio in ospedale completamente da soli e senza attenzioni da parte del personale. Poter guadagnare più di 150 euro al mese e pagare comodamente un affitto. La salute è un diritto garantito nel mondo occidentale; in Africa è ancora un privilegio per pochi.