L’importanza del velo islamico

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Il velo islamico è, in tutto il mondo, un indumento femminile sempre più misterioso e controverso, dal significato diverso in base all’area geografica in cui viene vestito: da simbolo di sottomissione, emancipazione e arretratezza in Occidente, portando talvolta a leggi e proibizioni, a emblema di purezza e spiritualità in Oriente. È un lembo di tessuto allo stesso tempo venerato e discusso, dall’origine pratica ed economica e di diverse tipologie.

La prima varietà di velo lascia scoperto tutto il volto, coprendo capelli, collo e spalle. Il più diffuso in Iran è lo chador, un semicerchio di tessuto generalmente nero, che copre tutto il corpo e accompagnato spesso da un velo più piccolo all’altezza del collo. Simile è il khimar, una sorta di mantello ma, che a differenza del primo, arriva generalmente sopra la vita. Tipica nei Paesi del Golfo è lo Shayla, una lunga sciarpa rettangolare avvolta attorno alla testa e fissata con una spilla. Il foulard più comune, indicato nel Corano come simbolo di pudore e castità e diffuso ormai in Occidente, è l’hijab, che prevede una o più sciarpe di vari modelli, colori e fantasie, anch’essa coprente testa e collo. 

Una seconda tipologia di velo sono quelli coprenti anche il viso, simboleggianti la massima “sottomissione” e legame alla religione islamica. Il burqa è utilizzato esclusivamente in Afghanistan e Pakistan, reso obbligatorio per legge dal 1996 al 2001; seppur oggi non ci sia già un vincolo di indossarlo, è molto spesso utilizzato dalle donne di questi territori: si tratta di un velo integrale coprente e pesante, caratterizzato da una retina posta all’altezza degli occhi per permettere di vedere. Simile, tipico in Arabia Saudita, è il niqab, il quale lascia libero gli occhi grazie ad una sottile striscia e rappresenta il velo islamico più coprente dopo il burqa.  

Le molteplici tipologie di velo islamico, come abbiamo visto tipiche del mondo orientale e legate all’Islam, hanno origine e si sono diffuse inizialmente nell’area mediterranea: fin dall’antichità era un elemento distintivo delle donne di classi elevate, in particolare delle patrizie romane che non potevano uscire di casa se non con addosso un indumento coprente. Il velo era simbolo di ricchezza, distintivo di una classe altolocata, trasportato nel mondo islamico per promuovere, però, un messaggio di uguaglianza e giustizia sociale: tutte le donne, dalle più ricche alle schiave, potevano e dovevano velarsi. Questa omogeneità, però, si è trasformata in poco tempo a simbolo di discriminazione, in Oriente dal punto di vista di sottomissione maschile e in Occidente come disparità sul lavoro, retribuzioni più basse e attacchi in spazi pubblici. 

E alle credenti di gettarsi i veli dal loro capo sul seno e non mostrare i loro vezzi…”. È il verso 31 della Sura Annour XXIV, uno dei due all’interno del Corano che narrano dell’utilizzo femminile del velo islamico. Nessun riferimento al tessuto o al colore ma, soprattutto, nulla sul fatto che debba coprire il viso; anzi, possiamo constatare che neanche negli obblighi imposti da Dio viene constatato un obbligo “coprente”: in occasione delle cinque preghiere quotidiane e in quella del sacro pellegrinaggio, alla donna è richiesto di indossare abiti che coprano il corpo e di indossare il velo, lasciando però scoperto viso e mani. Quindi, di fronte ad obblighi dichiarati come quello di rimanere in casa al fianco del marito, nessuno mostra un obbligo di indossare il velo costantemente, ma solo in determinate occasioni. La scelta, seppur condivisa dalla maggior parte delle credenti, è libera o, molto spesso, condizionata dalla propria famiglia e dalla propria cerchia. 

 

Arienti Stefano

Arienti Stefano

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