“Un popolo dovrebbe capire quando è sconfitto”. “Tu lo capiresti Quinto? Io lo capirei”. Questo apparente banale dialogo nei primi minuti del film “Il Gladiatore” mostra l’esercito romano osservare le tribù germaniche lanciarsi in battaglia, destinate alla morte di fronte l’imponente forza dell’Impero. La cultura mondiale ha sviluppato da millenni il culto dell’eroe destinato al sacrificio, di colui che si immola per una causa, senza mai retrocedere di fronte ad una sconfitta praticamente certa: dai kamikaze giapponesi nel Pacifico a Hitler nella Seconda guerra mondiale; al mito di Ettore ucciso sotto le mura della propria città; i “cento giorni” di Napoleone prima di essere esiliato all’Elba. E, oggi, il mondo occidentale guarda con ammirazione e simpatia il presidente ucraino Zelensky, ex attore e amato dall’intero suo popolo per la forza e la determinazione contro l’opposizione filo-russa, un Impero militarmente distruttivo e senza paragoni col resto del mondo. Perché non arrendersi? Perché lasciar fuggire o morire il proprio popolo? Perchè mettere in difficoltà economica tutto il mondo? Sono queste le domande che ci si pongono dopo più di due settimane di conflitto, centri urbani ridotti in macerie e più di duemila morti.
Molti esperti sono convinti della sconfitta Ucraina, principalmente dal punto di vista militare. Lo hanno ammesso dal primo minuto d’inizio dell’aggressione. Per capirlo basta osservare le differenze economiche e statistiche dei due eserciti. 45 miliardi di dollari stanziati, 1.350.000 uomini, oltre 4000 forze aerospaziali, 12.000 carri armati. Finanziamenti costanti in guerre ibride, un mix di forza fisica e attacchi informatici mirati, di fianco ad una potente macchina di propaganda da far invidia ad Orwell. I numeri della Russia sono spaventosi e immensi rispetto a quelli dell’Ucraina, la quale ha destinato alle spese militari “solo” 4,7 miliardi di dollari e la metà delle truppe di Mosca. La costante campagna di modernizzazione delle forze armate russe, dopo le carenze venute nel conflitto in Georgia nel 2008, non hanno paragoni col resto del mondo, al pari solo degli Stati Uniti; quindi, neanche nei confronti dell’Ucraina, la quale ha come unica soluzione per un rafforzamento e sostegno militare l’ingresso (mancato) nella NATO.
Il crollo del rublo e dell’economia russa non sembra toccare Putin, dittatore in una nazione silenziata. Per noi, invece, democrazie occidentali, non può essere lo stesso. Dal gas all’agroalimentare, questa guerra sta portando gravi danni in tutto il mondo, dall’Italia stessa all’Africa, impossibilitati a schierare truppe per evitare di allargare ancora di più questo già drammatico conflitto. La resa di Zelensky e dell’Ucraina, al di là delle ingiustificate motivazioni di guerra di Mosca, risolleverebbe un’economia già gravemente colpita dalla pandemia. La resa, più che una sconfitta, appare sempre più come un dovere, quando a pagare il prezzo di una lotta sono i più fragili.
L’Occidente, dalla politica ai media, sostiene incessantemente questa guerra, cogliendo subito l’opportunità della narrazione del mito di un eroe sconfitto da un gigante. Tutti siamo d’accordo riguardo le violazioni giuridiche e umanitarie intraprese da Putin, ma il nobile atteggiamento di Zelensky e del suo popolo, sottolineano molti esperti, potrebbe essere eccessivamente esagerato di fronte ad una sconfitta praticamente certa. Al Cremlino – o a Putin – poco importa del sostegno mediatico o di distruggere la propria reputazione agli occhi dell’Occidente, di apparire come autocrate sanguinario o dittatore di un popolo che non supporta la guerra. È quindi la lotta tra due figure e due ideali di pensiero completamente opposti: una barbara e cieca dittatura contro un nazionalismo forte e giusto, sostenuto dalla gran parte del mondo. In guerra, però, vince sempre il più forte e brutale, non quello più “umano”. Sul campo di battaglia e nel panorama di guerra nel quale siamo conta solo vincere, non attraverso “share” o messaggi di pace, ma conquistando il territorio del nemico e annientando chiunque si opponga.