Proteste, proteste e ancora proteste

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Il 2023 è l’anno delle proteste. Probabilmente delle grandi rivoluzioni. Grandi moti che, nonostante non entreranno nella storia ai livelli del Boston Tea Party o della Rivoluzione francese, sicuramente stanno cambiando il corso della politica di molti stati. E l’Europa è il continente al centro di questi moti, segnale di una necessità di rinnovamento e di un sistema politico-economico non più al passo con l’avanzare della modernità.

 

Semplici proteste o nuova Révolution?

Luigi XVI lo abbiamo decapitato, Macron possiamo ricominciare!”. È questo uno dei tanti, forti, cori che permangono da settimane nelle strade francesi, in rivolta per l’attuazione della contraddittoria riforma che mira ad aumentare l’età pensionabile da 62 a 64 anni.

In particolare, da venerdì 17 marzo la Francia si continua a svegliare con i postumi della sbornia. Non solo per i gas lacrimogeni usati dalla polizia nelle ultime manifestazioni per disperdere i manifestanti nelle principali città dello stato. Ma, soprattutto, dopo che Macron ha deciso di utilizzare uno strumento costituzionale impopolare per approvare la ancora più impopolare riforma pensionistica: l’articolo 49.3 della Costituzione francese (utilizzato giovedì 16 marzo), incarna infatti quel parlamentarismo razionalizzato tanto amato per bloccare gli eccessi della passata Quarta Repubblica e ritornato in auge oggi dalla presidenza Macron, affermando in particolare che una legge può essere adottata se il governo non viene censurato dalla maggioranza dei parlamentari.

La responsabilità di questa situazione ricade – e ricadrà – ovviamente sul Presidente; una riforma che rappresenta un caso di studio di ciò che non si dovrebbe fare in politica. Le conseguenze sono rovine fumanti per tutta la Francia: Macron rimane protetto dalle forti mura istituzionali della Quinta Repubblica, ma a costo della crescente disconnessione del Paese dalla politica.

 

A Madrid si protegge la sanità pubblica

12 febbraio 2023. Al grido di “La sanidad pùblica no se vende, se defiende”, centinaia di migliaia di operatori sanitari spagnoli hanno protestato a Madrid per quella che definiscono la distruzione del sistema sanitario pubblico da parte del governo regionale conservatore. Secondo i dati del governo si sono stimate circa 250.000 persone, anche se gli organizzatori affermano la presenza di quasi un milione di persone.

Il governo di Madrid è stato oggetto di numerose critiche durante gli ultimi anni, ovviamente a partire dall’arrivo della pandemia nel 2020: la scarsa disponibilità di personale negli ospedali e nei centri sanitari di base hanno portato – nel 2022 – per il 27% delle persone con problemi di salute un’impossibilità di farsi visitare dal proprio medico di base, secondo quanto riferito dagli organizzatori della protesta. La FADSP (Federaciòn de profesionales y ciudadanía para la defensa y mejora de la Sanidad Pùblica) – organizzatrice della manifestazione – afferma in particolare che il governo conservatore spagnolo “vuole distruggere il sistema sanitario affinché tutti favoriscano il settore privato”. “Hanno tagliato i nostri stipendi invece di aumentarli. Siamo sopraffatti dal lavoro e non abbiamo alcun sostegno. Siamo in pericolo di estinzione”, afferma a Reuters Lilian Ramis, direttrice del centro sanitario El Molar di Madre.

In Italia siamo nella medesima situazione (se non peggio): ma nessuno sembra avere il coraggio di manifestare a questi livelli…

 

Una controversa legge anche in Georgia

Dopo giorni e notti di proteste, il 9 marzo è stato ritirato il disegno di legge che avrebbe previsto, in Georgia, la registrazione presso il ministero della Giustizia come “agenti di influenza straniera” per quei media che avessero ricevuto più del 20% dei finanziamenti da parte di fonti estere, sottoponendoli perciò a monitoraggio e possibili sanzioni. Questa controversa riforma venne proposta da “Georgian Dream Party”, partito filo-russo di maggioranza al governo; la società civile, però, assieme a media e analisti, hanno cominciato a criticare ferocemente il progetto, affermando come esso “minacci la caduta della democrazia georgiana”. Una legge che ovviamente rimanda alle passate azioni di Mosca, che sfruttò un simile progetto per mettere a tacere le organizzazioni e le testate giornalistiche che criticavano il governo, ampliatosi ovviamente con lo scoppio della guerra.

Nonostante il ritiro della legge le proteste sono continuate, a fianco di un governo che ha annunciato il dietrofront per incapacità di spiegare al pubblico la necessità della legge. Il degenero della situazione ha costretto le forze dell’ordine locali ad utilizzare gas lacrimogeni e cannoni ad acqua contro i manifestanti scesi in piazza nella capitale Tbilisi. In particolare, il panico è cominciato a scatenarsi dopo che un manifestante ha lanciato una molotov contro un cordone di polizia antisommossa. Successivamente, 133 sono stati i manifestanti arrestati – tra cui il leader dell’opposizione Zurab Japaridze – e 50 poliziotti sono rimasti feriti.

 

Le proteste invadono anche l’Asia

Lavorare dalle 9:00 alle 21:00. Questo era il progetto di legge che il governo sudcoreano voleva imporre alla popolazione asiatica. Il non equilibrio tra vita privata e vita lavorativa è stato oggetto di accesi dibattiti dopo che il governo ha recentemente (metà marzo) proposto di aumentare l’orario massimo settimanale di lavoro da 52 a 69 ore; piano che, dopo le manifestazioni, è stato parzialmente ritirato dal governo di Seoul. Se secondo il ministro del lavoro sudcoreano alzare il limite degli straordinari fornirebbe ai dipendenti una maggiore flessibilità, le nuove generazioni non si sono invece trovate particolarmente d’accordo.

In particolare, secondo le più recenti prospettive occupazioni dell’OCSE, i sudcoreani hanno lavorato in media 1915 ore nel 2021, ovvero 199 ore in più rispetto alla media europea e 566 ore in più rispetto alla Germania. Il piano è quindi stato aspramente criticato dalle nuove generazioni, anche perché non al passo con le altri grandi economie occidentali – tra cui la Gran Bretagna – dove dozzine di aziende stanno sperimentando la settimana lavorativa di quattro giorni (e che, secondo gli attivisti, avrebbe portato ad un aumento della produttività e del benessere personale).

Un piano “tossico” e “anacronistico”, come definito dalla Federazione dei sindacati coreani, che “costringerebbe i lavoratori a lunghissime ore di lavoro intenso”.

Arienti Stefano

Arienti Stefano

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