Giuglo, Costa d’Avorio. Oltre al rumore del vento e raramente il verso di qualche animale, costanti sibili di lame e rintocchi metallici si sentono arrivare dalle centinaia di fattorie scavate nella foresta. Entrando in una di esse, migliaia di ragazzi – o meglio, bambini – lavorano a testa bassa per produrre qualcosa che, molto probabilmente, non vedranno mai nel corso della loro, purtroppo, breve vita: il cioccolato. Analizziamo nel seguente articolo il problema della schiavitù infantile impegnata da decenni nella produzione del cacao e i ciechi tentativi della comunità internazionale di sradicare il problema.
Schiavitù infantile e cacao
Parlare di schiavitù è sempre qualcosa di complicato. Anche solo utilizzare un termine che, per molti, è un fenomeno oramai lontano e legato a paesi “di poco conto”, risulta sempre essere un problema. Esiste ancora la schiavitù? Sfortunatamente la risposta a tale domanda è positiva e – soprattutto con l’avvicinarsi della Pasqua – sulle nostre splendide tavole o nelle nostre ricche dispense in cucina possiamo trovare quasi sempre un prodotto tanto buono quanto “ricco di schiavitù”: il cioccolato.
Oltre il 60% del cacao mondiale proviene da due singoli paesi dell’Africa occidentale: il Ghana e la Costa d’Avorio. Secondo centinaia di indagini nel corso degli ultimi vent’anni e le ricerche del Global Slavery Index, migliaia di bambini sono ancora oggi trafficati e costretti a lavorare nelle piantagioni di cacao africane. Prendiamo come fonte di quest’analisi il celebre articolo del Washington Post “Cocoa’s Child Laborers”, pubblicato nel 2019 e sicuramente uno dei principali scritti riguardo questo fenomeno. Ciascuno dei ragazzi intervistati e riportati nell’articolo, ha attraversato il confine mesi o anni fa dalla povera nazione del Burkina Faso, prendendo svariati mezzi e costretti ad allontanarsi dai genitori. Le fattorie in cui si sono ritrovati a lavorare costituiscono la più importante fonte mondiale di cacao e sono lo scenario di un’epidemia di lavoro minorile che le più grandi e importanti aziende di cioccolato al mondo (principalmente occidentali) hanno promesso di sradicare quasi vent’anni fa.
“Quanti hanno hai?”, chiede un giornalista a uno dei ragazzi più grandi. “Diciannove” risponde Abou Traore con voce sommessa, aspettando che il contadino-controllore si allontani abbastanza per non udire più la conversazione. “15” scrive immediatamente dopo sulla sabbia grigia appena il contadino è distratto. E la stessa scena si ripresenta per gli altri centinaia di ragazzi delle fattorie. “Sono venuto qui per andare a scuola”, dice Abou. “Sono cinque anni che non vado a scuola”.
“Quando penso a tutta quella sofferenza, il mio cuore soffre profondamente. Vorrei dire così tanto, ma non riesco proprio a trovare le parole. Se dovessi dire qualcosa a loro [i consumatori di cioccolato, noi], non sarebbero belle parole. Godono di qualcosa che ho sofferto per fare. Ho lavorato sodo per loro ma non ho mai visto alcun beneficio. Stanno mangiando la mia carne”. Sono le parole di un adolescente costretto a lavorare in una di queste fattorie, tratto da un documentario di True Vision Productions realizzato addirittura vent’anni fa. Ad oggi, poco nulla è cambiato.
Troppo poco e troppo tardi
Sono alcuni anni (ancora oggi) che molti Paesi africani si stanno battendo per avere una fetta più grande del guadagno del mercato del cioccolato. Secondo l’istituto statunitense di ricerche Grand View Research, nel 2021 il mercato del cioccolato valeva 113 miliardi e all’Europa spettava quasi metà della tavoletta prodotta. Una lotta al guadagno che, come possiamo già immaginare, chiude gli occhi di fronte all’ancora più grande problema sulla produzione.
2005, 2008, 2010, 2020. Tutti anni in cui le grandi aziende mondiali del cioccolato hanno fatto grandi promesse sul problema della schiavitù infantile. Tutti anni in cui queste promesse sono state mancate. Di conseguenza, è certo che una tavoletta di cioccolato acquistata nei nostri supermercati sia il prodotto del lavoro minorile. Secondo un rapporto del Dipartimento del lavoro degli Stati Uniti del 2015, infatti, più di due milioni di bambini erano impegnati in queste regioni africane di coltivazione del cacao.
L’articolo del Washington Post sottolinea soprattutto l’impressionante incapacità di affrontare il problema da parte dei più grandi produttori mondiali. Di fronte alle domande sul fenomeno, i rappresentanti dei più grandi marchi conosciuti del settore – Hershey, Mars e Nestlé – non hanno potuto in alcun modo garantire che nessuno dei loro cioccolatini o prodotti fosse frutto di assenza del lavoro minorile. “Non ho intenzione di fare queste affermazioni”, ha addirittura dichiarato un dirigente di una di queste tre multinazionali.
Dopo vent’anni di impegno a sradicare il problema, le aziende produttrici di cioccolato non sono ancora in grado di identificare le fattorie da cui proviene il loro cacao. E figuriamoci quindi se riescono a dimostrare l’assenza di lavoro minorile. In particolare, Mars (produttore di M&M’s) riesce a far risalire solo il 24% del suo cacao alle fattorie; mentre Nestlé solo ill 49%.
“Non abbiamo sradicato il lavoro minorile perché nessuno è stato costretto a farlo. Qual è stata la conseguenza per non aver raggiunto gli obiettivi? Quante multe abbiamo dovuto affrontare? Quante pene detentive? Nessuna. Non ci sono state conseguenze […] Le aziende hanno sempre fatto quanto basta in modo che se ci fosse stata l’attenzione dei media avrebbero potuto dire: ‘Ehi ragazzi, questo è quello che stiamo facendo’. È sempre stato troppo poco, troppo tardi. E lo è ancora” – Antonie Fountain, amministratore delegato di Voice Network.