“Guardando il cielo, i monaci hanno disegnato i giardini della terra” – Dom Gérard.
Il vino nella liturgia cattolica
Nell’Antico Testamento, il “sangue versato” rappresentava un elemento fondamentale per quanto riguardava il perdono e la redenzione. Questo è anche il motivo per cui le feste religiose integravano molto spesso l’uccisione di animali. Questi sacrifici, dal latino “sacrificare” (letteralmente “rendere sacro”), avevano lo scopo di ottenere i favori di Dio e il perdono dei propri peccati.
Il Nuovo Testamento e, in particolare, la figura di Gesù Cristo trascenderanno tutti questi sacrifici e il loro significato. L’offerta personale di Cristo sulla Croce diviene il “sacrificio ultimo”, la presa in sé di tutti i peccati dell’umanità. Gesù è la rappresentazione de “l’agnello di Dio che toglie il peccato dal mondo” (Vangelo di Giovanni I, 29). A differenza delle “offerte” dell’Antico Testamento, costantemente rinnovate e portatrici di una sola espiazione temporanea, quella del figlio di Dio ebbe effetto definitivo sulla storia dell’umanità. È così che la messa diventa il più grande tesoro della Chiesa: riproducendo le parole e i gesti sull’altare, il sacerdote rende presente e attuale l’unico atto redentore, l’unico sacrificio sulla Croce.
In particolare, la consacrazione viene realizzata tramite l’atto della “transsubstantiation”, il cambiamento della sostanza del pane in quella del corpo di Cristo. E così anche per il vino, sangue di Cristo e il centro dell’atto più sacro della liturgia cattolica. Così come Gesù, il vino, materia “viva”, deriva da un succo d’uva inizialmente “morto”. “Il mistero della fermentazione dell’uva sta nel fatto che una materia inanimata, proveniente da un atto di “doppia-distruzione” (la vendemmia, raccolta e la pressatura, macinazione), è la sede di un’intensa attività che rianima la vita nella morte stessa”, così viene definito il processo di produzione vinicola da Martine Courtois (“Les ferments interdits dans la Bible”), identificando l’ovvio legame con il mondo religioso.
Addirittura 8000 anni fa, in Georgia, proprio nel luogo dove nacque per la prima volta la viticoltura, l’uva appena calpestata veniva messa in vasi di terracotta molto ampi, chiamati “qvevri”. Questi venivano successivamente sepolti per mesi nel terreno all’interno di una cantina, il “marani”, luogo santo e consacrato, al cui interno un semplice succo d’uva rinasceva misteriosamente sotto forma di un “divino nettare”. La comunione eucaristica va ancora oltre. Durante la messa si unisce il corpo e l’anima (il vino) di Cristo ai nostri, realizzando a pieno le parole di San Paolo: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (San Paolo, “Épitre aux Galates”, II, 20).
L’apice della viticoltura del cielo
Il momento più importante per quella che possiamo chiamare “viticoltura del cielo” è sicuramente quello della fondazione dell’abbazia di Cluny, nel 909. Situato nella Borgogna meridionale e inizialmente modesto stabilimento di una dozzina di monaci, l’abbazia diverrà il faro della cristianità nei secoli a venire, consacrando l’indipendenza di Roma e ripristinando le virtù evangeliche. Per tutto il XI secolo e parte del XII secolo, Cluny divenne la capitale spirituale, intellettuale, artistica e persino politica di tutta Europa, abbazia a comando di oltre mille monasteri sparsi per tutta l’Europa occidentale.
Tra i terreni compresi nell’abbazia, la vite occupava certamente un posto di primo piano. Per Cluny come per tutte le altre abbazie di questo periodo, il possesso di un vigneto era una grande necessità assoluta; ancor di più se si parla della più importante abbazia di questi secoli. Nel 1150, 300 monaci vivevano all’interno della struttura, senza ovviamente contare tutti i fratelli laici dipendenti dall’abbazia, presumibilmente due o tre volte più numerosi. Di fianco, bisogna ricordare i migliaia di pellegrini che giornalmente transitavano per la struttura, luogo di passaggio sia per Santiago de Compostela che per Roma, ma anche essa stessa tappa di pellegrinaggio. “Questo si spiega, tra le altre ragioni, dall’attrattiva del potere, della magnificenza e dal prestigio di un luogo che bisognava aver visto”, così Edward Steeves (“Cluny, le vignoble invisible”, 2013) definisce l’importanza dell’abbazia, affermando come potessero esserci ogni giorno oltre 2000 pellegrini e visitatori. Aggiungendo anche i 18.000 poveri che annualmente l’abbazia nutriva e curava al ritmo di cinquanta al giorno, possiamo calcolare che Cluny offriva il “sangue di Cristo” a circa 3000 persone al giorno; e, considerando (approssimativamente) mezzo litro di vino a persona, possiamo giungere ad affermare che l’abbazia doveva produrre 1500 litri di vino al giorno.
Il declino della viticoltura del cielo
Dal XIV secolo alla fine dell’Ancien Régime possiamo individuare il grande periodo di decadimento della viticoltura delle abbazie. Le epidemie del XIV secolo, la Guerra dei Cent’anni (1337-1452), le Guerre di religione (1559-1589) e la Guerra dei Trent’anni (1618-1648) fecero transitare la viticoltura monastica verso la sua fine. Di fianco, i costanti attacchi alla religione cattolica fino al XVIII secolo, i filosofi “illuminati” e la confisca nel 1789 dei principali beni della Chiesa non fecero che peggiorare ancor di più un panorama ormai completamente anticristiano.
I monaci iniziarono ad essere cacciati dalle loro abbazie e i più fedeli vennero addirittura perseguitati. Le abbazie vennero espropriate delle loro terre e vendute come “beni nazionali”. Sono pochi i casi in cui i nuovi proprietari rispetteranno la storia di questi luoghi, molto spesso invece trasformati in fabbriche o addirittura prigioni (come nei casi di Clairvaux e Fontevraud). Altre strutture furono preda di mercanti di beni, che le saccheggiarono e smantellarono per trarne la pietra da costruzione. E proprio tale fu il destino della storica abbazia di Cluny, distrutta per tre quarti nel 1810.
“Una pagina molto lunga si gira definitivamente… I pellegrini che si dirigono verso Compostela non possono più fare una sosta restauratrice all’ombra di questo alto luogo della cristianità. I poveri e i malati non si presentano più davanti alla grande porta misericordiosa del recinto dei fratelli monaci un tempo affollato. Il dovere dei benedettini di accogliere i loro fratelli umani di ogni rango sociale e di ogni condizione non è più praticato da due secoli in questo luogo abbandonato come un orfano ai margini del grande cammino della storia. Non ospitiamo più, non nutriamo più, non vestiamo più, non curiamo più, non diamo più da bere, né acqua né vino. Non si cantano più i salmi in gregoriano. Non più che diamo la benedizione ai grandi di questo mondo e alla folla dei fedeli” – Edward Steeves.